Letteratura

Contropasolini, o della «vacuità prolissa delle cose»

29 Ottobre 2015

In occasione dei quarant’anni dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini – e in accordo con Rubbettino che per questo si ringrazia – si è deciso di pubblicare il capitolo dedicato a pasolinismi e intellettuali tratto dal libro «Paracarri – Cronache da un’Italia che nessuno racconta», di Alessandro Calvi, Rubbettino Editore (2015).


C’è un’automobile che corre in autostrada. A bordo, due persone. Forse stanno litigando. L’auto sbanda, esce di strada. L’uomo alla guida sembra scappare, forse cerca aiuto. Verrà arrestato poco dopo. Il passeggero morirà più tardi in ospedale. Sui giornali la notizia merita a stento un trafiletto, e soltanto perché il nome del sopravvissuto è già noto alle cronache: Pino Pelosi, l’assassino di Pier Paolo Pasolini. Fine della storia. Almeno di quella ufficiale.

Eppure, la storia potrebbe iniziare proprio a questo punto. Sui giornali il nome del passeggero quasi non è arrivato, anche perché quel nome è davvero sconosciuto ai più: Olimpio Marocchi. Chi è costui? Nessuno, a quanto pare. E quindi nessuno se ne occuperà. Questa piccola storia tornerà a guadagnarsi qualche riga in cronaca soltanto un paio di anni più tardi quando Pelosi verrà condannato in primo grado a 3 anni di reclusione per omicidio colposo. Pelosi, scrive il Corriere della Sera il 25 maggio del 2012, ha causato «un incidente stradale nel quale rimase vittima il migliore amico, Olimpo Marocchi». E quel nome scritto più volte così, senza la «i», Olimpo invece che Olimpio, non sembra neppure un refuso, ché in quella «i» che pervicacemente manca − e non soltanto sul Corriere della Sera − c’è un racconto breve e intenso sebbene inavvertito, ed è il racconto di una distrazione tragica, quella che in fondo riguarda lo stesso Pasolini, oggetto d’una non dichiarata damnatio memoriae, anche a partire da quell’omicidio sul quale, nonostante tutto, potrebbe esserci ancora qualcosa da raccontare. Olimpio Marocchi, per dire, non era proprio uno qualsiasi.

E, allora, ricominciamo da capo. Il 20 luglio del 2010 sulla autostrada che collega Roma con l’aeroporto di Fiumicino avviene un incidente. Secondo le prime ricostruzioni riportate il giorno successivo dalle cronache, Pino Pelosi ha perso il controllo dell’auto della quale era alla guida, forse a causa di un litigio con la persona che era a bordo con lui, forse per altre ragioni. Dopo aver sbandato, l’auto si ribalta e finisce la sua corsa contro il guardrail. Pelosi a quel punto esce dall’auto, lascia la strada e si allontana a piedi. L’uomo che era al suo fianco invece è spacciato. Le cronache ne riportano nome e precedenti. «Rapina a mano armata e reati contro il patrimonio», scrive Repubblica; cose da poco, tutto sommato, ma comunque il segno che, qualcuno − investigatori, inquirenti o giornalisti che fossero − qualche ricerca su quell’uomo, seppur minima e seppure soltanto per dovere d’ufficio, deve averla fatta. Ma, come detto, l’uomo morirà di lì a poco e la storia, per quanto riguarda i giornali, finisce qui.

Ed è un peccato, poiché è difficile credere che a molti di quegli inquirenti, di quegli investigatori e anche di quei giornalisti, possa essere sfuggito un articolo uscito soltanto pochi giorni prima sul Messaggero e firmato da Claudio Marincola […]. Questo è il titolo, su due righe: «“Sapevano ma hanno taciuto”. All’Idroscalo 35 anni di omertà». E questo è uno dei passaggi principali del pezzo: «La verità sulla morte di Pasolini la conoscevano in tanti. Nonni, zii, nipoti, figli, cugini acquisiti. L’ Idroscalo di Ostia era una grande famiglia, tante parentele intrecciate. Una grande famiglia allargata che per anni ha custodito un pezzo di verità su uno dei delitti più oscuri del secolo scorso. “Pasolini è morto davanti a tutti, ci fu anche chi quella notte prima dell’arrivo della polizia andò lì a vedere il cadavere”, rivela il figlio dell’uomo che allo scrittore di tanto in tanto affittava una baracchetta. È un racconto molto diverso dalla verità processuale. Confermato da un altro nipote che ha sempre saputo ma che soltanto ora ha trovato la voglia di parlare. Unica condizione: “Le dico il mio nome ma non voglio leggerlo sul giornale”. […] “Ero piccolo ma l’ho sempre saputo. Se ne parlava in casa. So come si svolsero i fatti anche se all’epoca ero soltanto un bambino”. Parla Ottavio M., il nome è di fantasia anche se le iniziali sono vere».

Ottavio M.? Sì, proprio Ottavio M.; e se, come scrive Marincola, il nome è falso ma le iniziali sono quelle reali, si può forse almeno immaginare che dietro quelle iniziali − O.M. − sia rimasto celato Olimpio Marocchi? È un’ipotesi suggestiva, certo, […] sembra il soggetto di un film, una cosa da non credere. E si dirà: sono mere supposizioni, e niente più di questo. […] No, quelle su Olimpio Marocchi-Ottavio M. non sono mere supposizioni: Ottavio M. era proprio Olimpio Marocchi, quell’Olimpio Marocchi […]. La conferma arriverà pochi mesi dopo direttamente da Claudio Marincola, il quale racconterà agli autori di un libro − Nessuna pietà per Pasolini − che l’Ottavio M. dell’articolo pubblicato sul Messaggero è in effetti lo pseudonimo dietro il quale, per ragioni di segreto professionale, era stato celato Olimpio Marocchi. «Oggi − spiegano gli autori in quel libro − quest’uomo è morto, e solo per questo Claudio Marincola ci ha autorizzati a rivelarlo». Sembrerebbe un fatto importante. Eppure, nemmeno questa notizia avrà un seguito. L’anno successivo se ne dirà anche in un libro scritto da Aldo Colonna per Donzelli, Borgata Gordiani, prefatto da Raffaele La Capria. Nella postfazione Colonna racconta molte cose di sé, degli anni passati in Borgata, di Pasolini, di certe idee, e anche di quell’incidente sulla Roma-Fiumicino e di quel passeggero, un certo Olimpio Marocchi, «abitante all’Idroscalo proprio in una di quelle casupole che fecero da fondale al massacro». Eppure, ancora niente, non accadde nulla nemmeno questa volta; giornali, intellettuali: niente; nessuna domanda, nessuna curiosità, nulla di nulla, come se davvero l’opera di rimozione su Pasolini si fosse consolidata a tal punto che neppure un fatto come la morte di un personaggio come Marocchi, forse non del tutto estraneo a certe vicende legate alla notte dell’Idroscalo, sembra meritare due righe sul giornale. Nemmeno se, addirittura, della sua morte è responsabile colui il quale venne condannato per l’omicidio dello stesso Pasolini, e dunque il protagonista di quella notte all’Idroscalo.

A inizio dicembre del 2014, qualche mese dopo la morte di Marocchi, Pelosi racconterà infine ai magistrati una nuova versione su come fu ammazzato Pasolini, diversa da quelle che aveva fornito in passato; e sarà una versione tutto sommato compatibile con quella suggerita da Marocchi. Il pubblico ministero a Pelosi chiederà anche di quel certo Olimpio Marocchi; e sembra che il magistrato sia stato l’unico ad essersi lasciato incuriosire da quella storia. I giornali, ad ogni modo, non ne parleranno nemmeno questa volta. E, anzi, qualche giorno dopo, nel corso di una trasmissione radiofonica tra le più seguite, Pelosi, parlando di certe vicende che lo avevano riguardato, proverà a sostenere di aver presentato lui Marocchi al cronista del Messaggero. Il conduttore, però, si limiterà a invitarlo a non fare nomi «che nessuno conosce». Chi era, insomma, Olimpio Marcocchi? Nessuno, appunto. Ancora nessuno. Soltanto un nome «che nessuno conosce». E amen.

Altri dipaneranno le coincidenze, infileranno le mani in presunti complotti, valuteranno i fatti già a disposizione. Ma non qui: che siano i magistrati a dare le risposte. Qui non è il silenzio dei fatti a preoccupare quanto invece quello del pensiero. Certe distrazioni − come quella che questa storia ha attraversato − sembrano alludere infatti a una distrazione molto più profonda e che riguarda lo stesso Pasolini il quale, ridotto ad icona, a santino, citato ovunque e senza ragione, oppure considerato null’altro che un frocio, un frocio e basta, è stato lentamente ma completamente svuotato del proprio pensiero dagli osanna e dagli insulti, e ridotto a mero corpo, e poi a bandiera, infine usato come straccio, mentre nel mondo si aggira un suo simulacro germogliato su quel corpo straziato e ridotto a poltiglia all’Idroscalo; ed è un Contropasolini sterile e privo della rabbia dell’originale, e dunque innocuo, buono come etichetta da appiccicare dove capita, su un romanzo, un film, o anche una qualsiasi strada si allontani dal centro, per dare una spolverata di vita su qualcosa che invece appare di marmo, freddo, inerte e definitivo come la morte.

Accade spesso anche a certe periferie che assurdamente sono considerate ovunque e più che mai pasoliniane − ah, le periferie pasoliniane! − sebbene pasoliniane non lo siano mai state davvero. E così come la distrazione sulla fine di Olimpio Marocchi, anche questo equivoco permanente sulle periferie e sulle borgate e sull’uso che Pasolini fece di Roma, è una piccola circostanza illuminante su quanto egli sia oramai considerato come un vezzo da conversazione o poco più, tanto che adesso lì, in quella etichetta usata quasi sempre a sproposito − ah, le periferie pasoliniane! − sembra che ogni discorso si possa considerare esaurito, come se già tutto fosse stato detto. E allora si potrà tornare ciascuno alle proprie occupazioni, senza turbamento alcuno e senza più rabbia. Ed è ciò che normalmente accade.

Ma le periferie pasoliniane non esistono; e comunque, non esistono più, se mai fossero esistite. Ha scritto Stefano Malatesta che «tutte le città cambiano, ma Roma non è cambiata, è scomparsa, come fosse finita in un buco nero». E con essa, si è dissolto anche il mondo che la popolava, digerito dentro un’invincibile marmellata ideologica che nutriva la nuova borghesia. La Roma raccontata da Pasolini era una città magra, nervosa, che ancora mostrava il costato per fame, era la città abitata da ex contadini ammassati nei borghetti di baracche o dai romani deportati in borgata, ed era una città vitale e sudata che esplodeva caotica, illegale e brutta, e si lanciava disordinatamente e con rabbia verso la vita. Poi quella città fu digerita e sostituita dai palazzi della speculazione o dall’edilizia popolare nei quali si iniziava ad ammassare la borghesia normalizzata, alienata, spappolata come anche iniziava ad esser spappolata la città stessa, che allora si fece simile a una emorragia di sangue infetto e contaminò la campagna e l’aggredì incuneandosi sino a dove non avrebbe dovuto, sino a superare la propria linea d’ombra: il Grande Raccordo Anulare. E così divenne adulta.

È anche in questa trasformazione che si inizia a consolidare il passaggio dall’Italia ancora rurale dei borghetti e delle borgate pasoliniane a quella definitivamente industriale delle periferie contemporanee. Confondendo queste due Italie si perdono gli strumenti per capirla, l’Italia, e si finisce per convincersi che sia ancora tempo per Una vita violenta, e si svuota di senso ciò che lo stesso Pasolini raccontò, non si capisce più la mutazione antropologica che avvenne in quegli anni né le conseguenze che ebbe e che ancora oggi sta dispiegando potenti, prima tra tutte l’omologazione, e quindi il conformismo, le quali sono categorie non a caso anch’esse scardinate, astratte e quindi sterilizzate della carica eversiva e scandalosa che avevano in Pasolini, nello stesso momento nel quale anche Roma stava diventando un grande parco giochi della classe media. Ed eccolo allora il paradosso: questi moderni palazzoni che sono storicamente e ideologicamente anti-pasoliniani − essendo, quella, la Roma della nuova borghesia − e che per Pasolini erano «una Roma morta senza essere mai vissuta», sono adesso diventati, nel luogo comune, pasoliniani per antonomasia, e con ciò sono anche il segno e il simbolo della rimozione di Pasolini e della sua antropologia che all’epoca sollevò scandalo. Insomma, sì, d’accordo: ah, le periferie Pasoliniane, e però […] oramai sono spesso soltanto la rappresentazione di una realtà immaginaria che regala emozioni senza sporcare il vestito. Lì Accattone non si vede da decenni. Oggi bazzica altrove. Anche Roma è altrove, e resta per lo più irracontata.

Non si racconta il rumore di fondo della vita, e le contorsioni delle esistenze, le viscere svuotate, ma neppure il pranzo che si approssima, le sedie che strusciano il pavimento, e piatti e stoviglie, e mamme che chiamano, e le risate dei bimbi, le televisioni che rimbombano dietro alle persiane di finestre semichiuse quando d’estate le strade son deserte e Roma fa finta di essere altrove e invece è nascosta dentro le case, al riparo dal caldo che strozza. Questa Roma popolare fatta anche di squarci di deserto metropolitano che si aprono se appena ci si allontana dal centro, o di prati che annunciano sempre nuovi quartieri, da tempo non finisce più sulla carta, ché chi dovrebbe raccontarla vive in un’altra Roma.

Ed è, quest’altra Roma, una Roma sgusciante che bazzica le terrazze che contano, è trasversale, ha gli amici giusti ed è sufficientemente pop da durare a lungo e digerire tutto; è una Roma giovane e oriunda, radicata in altri dialetti e che si concede il brivido pigro di ammassarsi in quei luna park della romanità che, a giro, spuntano e poi s’ammosciano, in una versione minore di gentrificazione: Pigneto, Testaccio, San Lorenzo, Monti, quartieri di lunga storia ma oramai prosciugati, rinsecchiti, disanimati, stravolti e offerti a chi non ha nessuno che gli apra una porta alle torri di Tor Bella Monaca o ai lotti di Primavalle e gli faccia sbirciare qualcosa delle viscere di questa città che non conosceranno mai.

Così, essi confondono ciò che fu nelle pagine di certi scrittori con ciò che in effetti Roma era ed è; e si compiacciono del racconto di maniera e costruito con mano pesante affinché la pagina acquisti una patina popolaresca, immaginando che sia sufficiente dire di qualche coltellata, dei palazzi dai muri sbreccati, di certi soprannomi che nessuno usa più, delle mignotte sulla Salaria o sulla Portuense. Ed soltanto in ciò, in un racconto di maniera, appunto, che si pretende d’aver esaurito il tema; e ci si rifugia in una idea di Roma che non esiste più, si chiacchiera di nuove appartenenze, di una nuova società e si commenta ciò che accade in strada e però in strada non si scende più e nei quartieri non ci si va mai, se non in quella replica addomesticata − il solito Pigneto − dove il selvaggio, la rovina, non sono altro che l’abbellimento di una esistenza borghese malsopportata; e l’unico racconto possibile diventa allora quello di vite viziate in interno borghese, storie noiose che affollano film e romanzi e che però nessuno leggerà mai davvero o andrà al cinema a vedere, ché in fondo la «corazzata Kotiomkin» è diventata davvero una cagata pazzesca.

Pasolini, Fellini, Flaiano, pur non romani, nella città d’allora ci affondarono le mani, e fino alla carne. Quindi ne fecero la scena per raccontare certe storie che avevano in testa. L’hanno usata. Oggi sono troppi coloro i quali in quella scena ancora pretendono di vivere, non accorgendosi che si tratta soltanto di una finzione scenica − via Veneto o il Pigneto fa lo stesso − e che, attorno, un mondo nuovo s’è aggiunto e attende d’esser raccontato ed è lì che la città adesso vive, in quei quartieri dai nomi inauditi. […] E infatti stanno sempre tutti lì, rinserrati al Pigneto, a Monti, a Testaccio; e stanno lì come si stava a Capri, inseguendo l’imperatore Totò, facendo il bagno col cappotto.

E c’è anche chi neppure questo, e rimane barricato in certe terrazze d’alto rango. E si sbigottisce nel leggere la confessione di un giornalista di gran fama come Pierluigi Battista, offerta sul Corriere della Sera durante la rivolta a Tor Sapienza. Eccola: «In quasi sessant’anni di vita a Roma […] non avevo mai visto Tor Sapienza e Corcolle. Anche l’altra sera in un’animata discussione tra gente dei quartieri alti sul Babuino pedonalizzato, si è constatato che nessuno aveva mai messo piede a Tor Sapienza. Perciò ho letto l’ottimo reportage di Goffredo Buccini dalle trincee del degrado metropolitano di Tor Sapienza e Corcolle con lo stesso senso di stupore di una lettura dei grandi etnologi e antropologi». Se è questo ciò che si può leggere sul quotidiano della grande borghesia, allora davvero non è più lecito stupirsi di nulla, neppure della risposta del Palazzo alle ferite delle persone ammassate in quelle periferie, trasformate in magazzino d’ogni sporcizia affinché la vetrina dei «quartieri alti» non ne venga sporcata; giacché in quei giorni di sommossa, ad ascoltare la voce del potere, è sembrato di risentire Petrolini nei panni di Nerone: «Ignobile plebaglia, così rin-com-pen-sate i sacrifici fatti per voi? Ritiratevi, dimostratevi uomini e domani Roma rinascerà più bella e più superba che prìa». E allora viene voglia soltanto di gridare che − in qualsiasi modo ciò debba infine accadere − nulla d’ora in poi dovrà esser più come prima […].

Si smontino, allora, dai proiettori le pizze della Grande bellezza per rimontare al volo quelle della Dolce vita, e che si torni tutti a innamorarsi dello sguardo furbo e malinconico di uno splendido Marcello Mastroianni, ancora capace di raccontare una storia e, con ciò, di scavare un abisso tra sé e lo sguardo da mollicone di Jep Gambardella. Ma, soprattutto, sarebbero da rimontare di corsa le pizze della Terrazza ché lì c’era già tutto, e, anzi, anche la Grande bellezza sembra il parto di uno dei personaggi di Ettore Scola.

Il fatto è che son comode quelle terrazze. Roma − dicono − è così: si viene a Roma per cambiare il mondo e si finisce cambiati dal mondo, poiché − dicono − Roma tutto digerisce, Roma non giudica, Roma accoglie tutti e infine si fa complice. Roma, insomma, sarebbe una puttana, ma una puttana orientale, ché in lei − dicono − scorre invincibile uno spirito levantino che trasfigura le regole in un semplice sussurro, un incentivo senza premio, mentre poi, «come in certi paesi dell’Est − scrisse Julien Gracq − tutto prospera grazie ad attività ignote al sistema vigente». Ed ecco allora anche quella idea che Roma sia una città che induce al male e che per di più lo faccia garantendo il perdono, scoraggiando quindi dall’assumersi le responsabilità, delegando ad altri ogni cosa, come piace all’altro potere che in città sta ovunque, la Chiesa, la quale su confessione e perdono ha costruito il proprio impero del quale Roma è capitale. E però scriveva Ennio Flaiano che «la grande cupola […] è il grande casco a vite che ti stringerà la testa e ti impedirà di pensare. A che pro penseresti se sei già assolto in partenza d’ogni tua eventuale eresia? È uno dei supplizi più riusciti».

Ma forse oramai anche Flaiano è stato sostituito da Jep Gambardella. Ché sono gli uomini ad esser così, e non Roma; Roma invece è esatta, come la pietra delle proprie fontane. E i romani sono come lei, e conoscono bene il potere e lo subiscono da secoli e per questo adesso se ne tengono lontani e stanno altrove, nelle sterminate periferie sconosciute a certi flâneur da salotto, così che la città, almeno a partire dagli sventramenti mussoliniani e dalla deportazione dei romani nelle borgate, è un enorme buco riempito da chi è nato altrove. I romani invece son lì, sul bordo, appesi al Gra, e osservano ciò che accade in quel buco vuoto […]. E forse anche per questo i romani oramai lasciano fare ad altri, giacché Roma non si racconta più, e aspetta che siano altri a farlo.

Ma poi non è nemmeno importante cosa accade nel presente: nulla può esser più importante di ciò che qui già è stato, e, d’altra parte, da sempre la fine è nota per chi ha costruito l’incipit; ed è in ciò che Roma è eterna, nell’esser padrona dell’inizio e della fine, e nel lasciare agli altri, a chi arriva, l’illusione di ciò che sta nel mezzo.

Dice bene Roberto D’Agostino quando afferma che a Roma si impara in fretta la differenza tra la cronaca e la storia, e «che al primo posto c’è solo Gesù Cristo» e che «il resto è nulla». I romani lo sanno; sanno che, come ha scritto Filippo Ceccarelli, «qui tutto è già abbastanza accaduto». E sta in quell’avverbiare sornione − «abbastanza» − la sostanza delle cose, poiché quello romano, come scrisse Carlo Levi, «è il popolo meno retorico, meno idolatrico e meno fanatico della terra […]. Neanche il tempo lo commuove o lo spaventa, perché l’ha tutto raccolto sull’uscio». Quanto agli altri, beh, gli altri invece hanno bisogno dell’esattezza del tempo e anche del tempo in sé, e allora si agitano, sgomitano, provano a farsi largo […]. Chi arriva a Roma finisce per essere assorbito quasi sempre negli anfratti del potere − siano i tavolini di certi bar alla moda, siano alcuni quartieri o certe redazioni − e smania e suda per farsi cooptare da quel potere per poi replicarlo, e così rimane prigioniero della storia, e incredibilmente si convince − ed è un errore che un romano non commetterà mai − che ad essere importante sia il Colosseo, mentre ad esserlo davvero sono certe chiacchiere che passano nei baretti sulla Tuscolana o in certi ristoranti a Centocelle dove però non bazzica chi resta barricato altrove, ad osservare fissamente il Colosseo, immaginando di poter fare parte di quella storia o addirittura di domarla, né capisce che, come ha scritto António Mega Ferreira, «nella fontana di Trevi, ancora oggi, tutte le mattine, tra le cinque e le sei, l’acqua smette di scorrere. Nel film di Fellini, questo era il miracolo di Anita Ekberg. Nella Roma moderna, si tratta di una imposizione dei servizi di nettezza urbana». Ché questo, insomma, è il vero segreto di Roma, ed è lo stesso di tutte le città del mondo: una città è fatta di persone, soprattutto; di persone fatte di carne, e di storie comuni. Ed è vita, questa città, non soltanto marmo, così che, per chi c’è nato, anche il Colosseo non è altro che il tinello di casa, o la camera da letto.

Pasolini lo sapeva, Fellini a volte fingeva di dimenticarlo. Altri non lo hanno capito o restano obnubilati dalla storia e, volendone far parte ad ogni costo, infine si perdono. Ma si capisce: ad ogni autunno lo spettacolo del cielo ricomincia sulla città, immutabile ed eterno, e suscita inevitabili e invincibili suggestioni. Lo stesso Sigmund Freud scrisse da Roma una lettera alla sua Martha per raccontarle che nella notte c’era stato un temporale «così violento e smisurato quasi l’avesse fatto Michelangelo»; e certamente Freud era un uomo avvertito su questo genere di suggestione.

Ma, appunto, di fronte a tanta potenza e all’eternità, se non si è avvezzi, non si può che trasalire, ché sotto quel cielo barocco tutto si muove nel dialogo tra potere nero e indolenza e ci vogliono secoli di pratica per restare immuni a quel potere, ed è per questo che, inevitabilmente, i nuovi arrivati ne vengono sopraffatti. Ed è di notte, seduti sul bordo di certe fontane barocche che […] sembrano infine osservare il proprio abisso, sul fondo dell’acqua raccolta da Bernini. E ciò che sono in grado di tirarne fuori è, allora, poco più che nichilismo. Ed ecco, dunque, certi racconti di grandi bellezze così monumentali e remote che non sanno raccontare altro che una finzione, il potere, una forma priva di vita e d’esistenza, una messa in scena permanente, come invece ha oramai compreso Adriana sul finire di Io la conoscevo bene, e lo racconta il suo sguardo mentre, all’alba, sulla 500 attraversa una Roma splendida e deserta, ancora lastricata di sampietrini, e poi rientra in casa senza salutare l’unico che le avesse mai davvero sorriso, e soltanto allora la telecamera finalmente svela l’altro lato − quello con l’armadio in plastica e il divanoletto − di quel suo appartamento nei nuovi palazzi della nuova Roma già incattivita e borghese, e da lassù osserva una città impunita che ancora le promette ciò che mai avrebbe mantenuto, quindi si toglie la parrucca e si getta nel vuoto mentre, terminata la musica, il giradischi rimane a gracchiare, solo e all’infinito.

La Grande Bellezza è lì, in quel gracchiare in faccia alla città, a una città che non si è conosciuta mai davvero, in quel gracchiare oramai senza senso. Ed è un gracchiare che s’è fatto coro nell’insieme delle voci di coloro i quali hanno smesso di raccontare l’esistenza e sono, per questo, come «il poeta servile» che, scrisse Pasolini nel trattamento della Rabbia, «si annulla, vanificando i problemi e riducendo tutto a forma». È in un gracchiare come quello che Pasolini inizia a morire davvero, feroce e disperato. Eppure, sarebbe bastato poco, sarebbe bastato un trasalimento, un moto incongruente: evadere da Monti, rinnegare il Pigneto, abbandonare Testaccio, scendere dalle terrazze, squadernare le redazioni dei giornali per tornare ad affondare le mani nella polvere e nella vita, immergersi nella esistenza, attraversare davvero i quartieri, liberi almeno per un momento, e in cerca di un racconto, e anche di risposte; o anche così, soltanto per togliersi ogni dubbio, magari su «un nome che nessuno conosce». Ché, per dire, Olimpio Marocchi forse non era uno qualsiasi.

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