Letteratura
Contro la poesia di strada e la poesia instagrammabile
Negli ultimi anni si è consolidato un fenomeno che sta modificando sempre di più il paesaggio urbano delle nostre città. La poesia di strada, cioè le poesie scritte sui muri. Si tratta della modalità di espressione propria dei giovani, ma essa è ormai apprezzata anche dalle istituzioni culturali e dai suoi addetti, da coloro che organizzano e presiedono i festival letterari del nostro paese. Per molti, in maniera trasversale, questa è ritenuta genuinamente la poesia, se non del popolo, almeno di quella fascia di popolo che risponde alla categoria dei giovani. Ma questa poesia è davvero considerabile buona poesia, cioè poesia che arricchisce la vita del lettore?
Atti vandalici
Per prima cosa, occorre puntualizzare un fatto che in molti sembrano avere dimenticato, cioè che questo tipo di poesia costituisce un atto vandalico. In un’epoca in cui siamo quasi obbligati a esprimerci artisticamente e in cui a chiunque viene fatto credere di essere speciale, sembra quasi reazionario affermare che una poesia scritta su un muro sia un gesto vandalico, eppure è così. Le scritte sui muri sono infatti un’imposizione di sé stessi nello spazio che condividiamo con gli altri cittadini. In breve, si tratta di prevaricazione nei confronti dei passanti. Perché questi dovrebbero obbligati a leggere i pensieri del poeta di turno? Certo, alcuni potranno dire che le scritte sono un dono inaspettato e creano un dialogo tra scrittore e ricevente, ma un regalo e un dialogo sono tali se l’altra persona li accetta volontariamente, altrimenti è solo un fastidio, perlopiù imposto. Per questo motivo, noi siamo d’accordo con Calvino quando afferma in Collezione di Sabbia:
«La parola sui muri è parola imposta dalla volontà di qualcuno, si situi egli in alto o in basso, imposta allo sguardo di tutti gli altri che non possono fare a meno di vederla o recepirla. La città è sempre trasmissione di messaggi, è sempre discorso, ma altro è se questo discorso devi interpretarlo tu, tradurlo tu in pensieri e in parole, altro se queste parole ti sono imposte senza via di scampo. Sia essa epigrafe di celebrazione dell’autorità o insulto dissacratorio, si tratta sempre di parole che ti piombano addosso in un momento che tu non hai scelto: e questa è aggressione, è arbitrio, è violenza. […] È la presenza della scrittura, le potenzialità del suo uso vario e continuo che la città deve trasmettere, non la prevaricazione delle sue manifestazione effettuali. […] La parola scritta non è imposizione quando ti arriva attraverso un libro o un giornale perché per essere ricevuta presuppone un previo atto di disponibilità da parte tua, un consenso all’ascolto espresso nell’acquistare o soltanto nell’aprire quel libro o quel giornale. Ma se t’arriva da un muro senza possibilità d’evitarla è una sopraffazione in ogni caso» [il grassetto è nostro, N.d.A.].
È vero che Calvino specifica che si può fare un’eccezione nel caso di scritte spiritose, graficamente originali o che contengano una suggestione poetica, ma occorre comprendere che le scritte sui muri di quarant’anni fa non sono quelle di oggi. Negli anni ’80 non esistevano i social e le scritte, oltre a non essere ancora così diffuse, erano ancora materiche: restavano sul muro, non diventavano foto che poi sarebbero state caricate su Facebook. Ai giorni nostri sono diventate un fenomeno di moda riprodotto all’infinito dai nostri strumenti digitali, la cui ironia, originalità o poesia è annullata dall’equipollenza di migliaia di messaggi simili che ci bombardano in ogni istante. Per quanto riguarda la suggestione poetica, oggi chi scrive poesie sui muri, a meno che non citi autori del passato, si ispira quasi sempre agli stilemi della poesia contemporanea, che, come vedremo, esclude suggestioni poetiche degne di questo nome.
Muri come bacheche degli smartphone
Forse non è audace ipotizzare un nesso tra il nostro bisogno esasperante di comunicare (digitale, mobile e incorporeo), e il diffondersi del fenomeno delle scritte, costante ma impermanente, i cui autori non a caso sono i giovani, i quali considerano del tutto naturale il gesto di affidare le proprie confessioni (come quelle che si trovano sulla pagina Facebook Rimasugli) a un muro. È la vittoria della vista a scapito degli altri sensi: ogni superficie verticale si trasforma in schermo su cui proiettare le nostre compulsioni, in una riproposizione generalizzata del nostro rapporto patologico con computer e smartphone, in cui tutti siamo legittimati (e incoraggiati) a dire ciò che ci pare solo perché abbiamo la possibilità di dirlo. Abituati quotidianamente a una saturazione cromatica e a un irrimediabile sovraccarico visivo, effimero ed epidermico, lo riproduciamo meccanicamente senza vergogna o pudore, seguendo pulsioni pubblicitarie e il bisogno malsano di ri-significare la città a nostra immagine.
Talmente assuefatti alla connessione da esporre le nostre intimità riproduciamo, senza rendercene conto, i paradigmi dominanti della comunicazione di massa, creando continui surplus d’informazione. Immersi in un’attitudine malincoironica e cazzara, disillusa e individualista, pensiamo di essere poeti e invece siamo solo epifenomeni di Instagram, o al massimo di Gio Evan, che a sua volta lo è di Instagram. La città si trasforma in una sterminata bacheca social, in cui tutto è instagrammabile e dove mancano solo le (o gli) influencer ad accalappiare i follower con ammiccanti immagini soft-porno.
Poeti senza scorza
Veniamo ora alla domanda fondamentale: le poesie scritte sui muri sono buone poesie? La risposta è no, non lo sono quasi mai. Inoltre sarebbe meglio non chiamarle poesie, ma pseudopoesie, e i loro autori poetoidi. Nei casi più ottimistici si tratta di componimenti inutili. Il loro valore poetico, sebbene esistente, perché ogni atto creativo ne contiene una dose minima, è prossimo allo zero. Se a una prima lettura possono risultare forse arguti o spiritosi, dopo le decima (cioè dopo cinquecento metri) si rivelano, benché sempre diversi, tutti uguali. Le pulsioni da cui scaturiscono, la lunghezza, gli argomenti che trattano e il tono e lo stile con cui li trattano, l’ironia che usano sono più o meno sempre gli stessi, perché tutti attingono dallo spirito dei tempi condiviso (sia pure inconsciamente) da una precisa fascia della popolazione.
È un tipo di poesia incapace di compattarsi in massa, senza peso specifico e inconsistente: in parole povere, senza scorza. Inoltre, v’è anche il problema che la poesia andrebbe giudicata sul lungo periodo e, se non dopo una vasta, coerente produzione, almeno dopo una silloge, perché la poesia ben fatta richiede tempo, molto tempo. La poesia va cesellata come un intaglio, molata come grano e temprata come una spada, non la si può scrivere su un muro in due minuti. Ancora una volta, non si tratta di poesie, ma di didascalie di Instagram. Se una poesia ben scritta è assimilabile a un cohiba o a un bicchiere di Brunello, le poesie sui muri sono un hamburger di McDonald’s. Quelle del MEP, che rappresentano il punto più alto di questa categoria e che infatti, sebbene siano sui muri, sono nobilitate dal fatto che sono stampate su carta incollata ai muri e non direttamente scritte sull’intonaco, possono essere al massimo un panino di Burger King.
Tutto ciò è desolante, ma non è una tragedia. L’autentica tragedia è che poeti veri, che vendono tante copie come Gio Evan o famosi sui social come Andrew Faber scrivano adottando questo stile inconsistente e vago, in cui è tutto melenso, zuccheroso, amorevole, delicato, placido e buonista. A questo punto, non si capisce più se Instagram abbia influenzato i poeti di questo tipo o se i poeti di questo tipo abbiano influenzato Instagram. Nelle loro opere mai che si parli di sesso crudo, muratori ammazzati sul lavoro, amore profondo. Mai che si faccia satira o si citi, che so, la GKN o l’antifascismo, mai che si racconti qualcosa, un avvenimento, un viaggio, un fatto d’attualità. No, le poesie devono essere rigorosamente delle torri di stati emotivi decontestualizzati, o impressioni su questi. Vietato parlare di politica, non si vorrà mica incrinare lo status quo o far ragionare il lettore target (che sembrano essere le donne)? Inoltre, cosa ancora più grave, non c’è la più piccola parvenza di metrica, non c’è mai non pretendiamo una rima, ma nemmeno il più modesto tentativo di costruire un ritmo interno nella poesia o di disporre i versi secondo un’armonia grafica. Questa poesia non è che polvere di rotti bicchieri: sciatta, nata morta, piatta, senza scintilla e banale. Certo, i poeti veri ci sono ancora, ma proprio perché perché tali fanno una fatica tremenda ad emergere. Magari vincono i concorsi, ma siccome non hanno santi nelle case editrici, non li pubblica nessuno, e spesso cadono preda dell’editoria a pagamento.
In molti dicono che Instagram ha rivitalizzato la poesia. È vero l’esatto contrario: Instagram (e Facebook) stanno uccidendo quel poco che rimane della poesia (grazie Rupi Kaur). L’hanno presa, instupidita, svuotata di senso e resa oscenamente pop. Oggi se un giovane poeta non è sui social (o un qualsiasi altro artista) si può dire che non esiste. E se anche questi raggiunge il successo, può arrivarvi solo seguendo le regole imposte dai social, senza deviare mai: cioè poesie brevi, immediate e pubblicazioni continue. Ma come si può scrivere una buon componimento se il poeta è obbligato a scrivere quasi ogni giorno? Una poesia di qualità è come il vino: possibile solo con una resa bassa per ettaro. La poesia non può essere una catena di montaggio che produce un pezzo a cadenze definite. Instagram ha il monopolio dell’apparenza. Se non ci si adegua, si viene esclusi. Non importa la bravura, importa l’abilità del poeta di aderire a queste dinamiche e brandizzare sé stesso. Se il poeta vi riesce, creando una nutrita base di follower a cui vendere un potenziale libro, allora le grandi case editrici gli proporranno un contratto, perché ogni follower è una vendita sicura. La poesia si fa fagocitare dal capitale, diventa questione di marketing e la qualità si considera irrilevante.
Con la scusa che la poesia è indefinibile, chiunque si sente autorizzato a comporre poesia, perché tanto, non si sa bene cosa sia. Tutti si considerano poeti, perché nessuno è in grado di dire esattamente cosa sia un poeta. La poesia diventa così un calderone in cui ribolle un miscuglio di ingredienti indefinibili. Non è così, se la parola non freme ed emette falistre, se non c’è una gravità di fondo, un moto tenero elegante selvaggio giocoso e tensivo, un’armonia musicale del verso spontanea ma strutturata, se il componimento non produce uno scarto, se non divampa, se non ha groove; allora non è poesia, o è cattiva poesia.
Un poeta dovrebbe assaltare il cielo all’arma bianca e marchiare a fuoco l’animo del lettore, dovrebbe far piangere, ridere e godere fisicamente una donna (o un uomo), dovrebbe sradicare, inquietare, costruire, radere al suolo e innalzarsi, deflagrare, amare sempre. Un poeta dovrebbe avere la missione di svelare le segrete e celate corrispondenze tra le parole, di costruire arcipelaghi di nessi, di far vibrare le sonorità della lingua accostando i ritmi naturali e innati dei fonemi che la compongono. Dovrebbe stillare dalla penna gocce di splendore. Dovrebbe essere capace di scrivere poesie anche di cinque pagine, invece di limitarsi alle dieci righe che impone Instagram.
La poesia è un’intensa espressione di sé stessi con belle parole, se non si è capaci, non è obbligatorio farla. Ma questi sono piccoli problemi. Fortunatamente, la poesia se ne fotte.
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