Letteratura

Contro la letteratura del lamento: il nuovo romanzo di Halle Butler

20 Luglio 2023

Mi concedo il piccolo, esecrabile lusso, di partire da me in questa recensione. Confesso che anch’io ho acquistato il libro per cercare una visione consolatoria, per rannicchiarmi, per la durata della lettura, nella comfort zone del disagio e pensare che, in fondo, noi millennials, siamo una generazione “sfortunata”. Tutto qua. Poi Halle Butler mi ha fregata.

Millie ha trent’anni e, come agilmente riassume la quarta di copertina, tutta la vita davanti. Vive a Chicago, in un appartamento pagato dai suoi genitori, mentre lei prova a cimentarsi in esperienze lavorative a tempo determinato tanto frustranti quanto, di fatto, desiderate proprio per l’indeterminatezza, la sospensione, il disimpegno che comportano. Millie si lamenta: del lavoro, delle sue relazioni umane, del suo stile di vita. Pensa di aver perso qualcosa lungo la strada – un fidanzato, delle amicizie, la prospettiva di un impiego coerente con il suo percorso di studio – ma allo stesso tempo disprezza ciò che ha perso, si compiace dell’allontanamento, considerandolo come il superamento di un’esperienza insoddisfacente (è vero? È falso? Non possiamo saperlo). Ha un’amica, Sarah, con un lavoro “schifoso” che le permette però una maggior stabilità e una prospettiva di carriera. Anche nei suoi confronti Millie ha un atteggiamento ambivalente: la cerca per non stare sola con i suoi pensieri, arriva a disprezzare le serate con lei consumate, birra dopo birra, nell’ascolto di vicende che non hanno per lei il minimo significato. Millie è insoddisfatta, irrisolta, apparentemente ingabbiata in un sistema di precariato che quotidianamente la mastica e sputa, ma non fa nulla per uscirne. Si crogiola nell’instabilità, quasi teme una promozione, un vero posto di lavoro, così come non affronta mai le minime fatiche che qualsiasi relazione interpersonale comporta. Completamente ripiegata su sé stessa Millie appare al lettore come una vittima, esempio perfetto di un sistema capitalistico in declino incapace di dare spazio alle giovani – non più tanto giovani – generazioni. La sua vita, fatta di illusioni semplici al limite della totale inconsapevolezza, suscita compassione inizialmente, quasi solidarietà. Ma Halle Butler, autrice di La nuova me (edito da Neri Pozza), di cui Millie è protagonista, maneggia magistralmente la trama, gioca con le emozioni e i sentimenti del lettore, armeggia con la complessità delle sfaccettature dei protagonisti. Millie è un’inconsapevole viziata, figlia di una borghesia benestante sempre pronta ad accogliere – purché sia per breve tempo e senza che questo possa creare problemi – richieste di aiuto che suonano come capricci esistenziali di chi può permettersi il lusso di farli. Millie pensa solo a sé stessa, giudica le amiche, le colleghe, secondo il suo personale metro di – relativo – privilegio. Naviga – e in questo Butler dimostra davvero una grande maestria nel descrivere, in pochi tratti, un’intero clima sociale – fra benessere e decadenza, osservata da lontano, come in un set televisivo, da vicini alienati e concittadini sospettosi. Non sceglie, mai, la sua strada: la vita le capita, forse perché, a differenza di Sarah, non se la deve guadagnare. Non  sopporta che, in un clima d’ufficio di totale indifferenza e pressapochismo (che così bene Butler condanna), si storpi il suo nome, ma non per una questione di rivendicazione identitaria, quanto perché è troppo comune, popolare, per lei che è “migliore degli altri”, inconsapevole di far parte di un esercito di migliori, tutti uguali e privati della forza che, in tempi ormai remoti, dava il sentirsi normali in un gruppo in grado di rivendicare una sua dignità. Halle Butler poi affonda il coltello ancor più nella piaga. Non solo stigmatizza il contesto sociale in cui quotidianamente viviamo immersi, fatto di privilegi à la carte sui siti di alimenti bio, fatti per dare un senso di esclusività a vite del tutto ordinarie. Non solo denuncia l’ipocrisia di un mondo del lavoro fatto di sfruttamento, insensate gerarchie, ritualità d’ufficio insulse e squarci di vita privata che oscillano fra il patinato e il decadente. Non solo mette a nudo la crisi dei rapporti umani, familiari in primis, tutti incentrati sulla risposta ad un bisogno personale e mai sul sincero interesse nei confronti dell’altra persona, ma fa qualcosa di estremamente più potente.

Butler racconta un mondo in cui domina l’illusione di potersi salvare da soli, in cui la normalizzazione passa attraverso la stigmatizzazione del diverso, essenziale per sentirsi migliori, per tirare avanti senza porsi una domanda vera sulla sensatezza del proprio quotidiano. Per ogni Millie in crisi c’è un alter ego che ce la fa e uno che si illuderà di potercela fare, di poter evadere da una routine mortificante, ma senza rompere gli schemi.

Il successo individuale, la realizzazione, ma non al prezzo di una scelta di vita in controtendenza. La denuncia, che si consuma fra pagine di intensa comicità e alternate a momenti che trasmettono una profonda angoscia, è contro un sistema, certo, ma si gioca a diversi livelli. La colpa più grave, sembra volerci dire Butler, non è quella di chi china il capo di fronte a ingiustizie e frustrazioni perché deve, perché non ha altra strada. Nemmeno quella di chi si dimostra indifferente a queste ingiustizie pur avendo la possibilità, pur minimale, di cambiare le cose e si accontenta di esercitare un potere misero su chi gli si trova sottoposto. L’attacco più forte è nei confronti di chi una scelta potrebbe esercitarla, ma decide di non affrontare lo sforzo, la fatica che questa scelta comporta, preferendo autocommiserarsi, dimenticando che esiste una possibile solidarietà, che non tutto si gioca su una visione che contrappone – in modo elementare – chi ha successo e chi è un fallito. La normalizzazione inconsapevole, l’adesione acritica e lamentosa a un modello esistenziale che forse non si condivide, ma che non ci si è mai presi l’onere di mettere in discussione, perché non si è voluta portare avanti alcuna riflessione di sistema. Sempre partendo dal presupposto che debba essere il lavoro a definirci e definire chi siamo socialmente, a indicare la normalità o anormalità di un percorso.

La nuova me è un romanzo che ha molti piani di lettura e, come tutti i romanzi di questo genere, può essere letto con leggerezza o angoscia, immedesimandosi o tirando un sospiro di sollievo perché “per fortuna non siamo Millie”. Butler però ci invita a non voltare l’ultima pagina del libro rifugiandoci semplicemente in un’autoassoluzione consolatoria, ma a riflettere, anche per il breve tempo di un caffè, sul senso di un sistema in cui viviamo immersi e che rifiutiamo o accettiamo senza esercitare quasi mai spirito critico.

La prosa brillante, matura e misurata fa il resto. Butler narra in modo eccellente il contesto di vita millennial del precariato e della caduta dei riferimenti tradizionali, ma senza sconfinare nel filone della narrativa del lamento, vero e proprio canone contemporaneo, anzi attaccandola, mostrandone i limiti, smascherando il lettore, portato da prima a simpatizzare per la protagonista, poi a prenderla – metaforicamente – a schiaffi. Millie, immersa nei suoi pensieri autoreferenziali e nel suo mondo, non è poi così distante da tante “viziate” figure borghesi narrate nei grandi classici dell’Ottocento. Mancano i sali per farla rinvenire alla fine di una giornata buttata via in hangover. Un libro estremamente caustico, divertente e pungente. Una finta lettura estiva per riflessioni da riportare a casa dopo una risata sotto l’ombrellone.

Halle Butler, La nuova me, Neri Pozza, pp. 185

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