Letteratura
Confesso che ho stonato (il nuovo libro di Gianni Mura)
Si può essere irrimediabilmente stonati, eppure coltivare un amore intenso e feroce per la canzone?
Gianni Mura nel suo ultimo libro “Confesso che ho stonato” (ed.Skira) ci dice di sì :“La musica mi attira pericolosamente come il mare uno che non sa nuotare”.
Segue il racconto di due episodi.
Il primo riguarda un viaggio in macchina con la cantante Giovanna Marini. Mura sta guidando, la cantante sonnecchia nel sedile accanto al suo. Mura ne approfitta per intonare alcune canzoni popolari. Appena lei apre gli occhi, lui smette di cantare. “Va avanti” gli dice la Marini “hai un certo modo di cantare che piacerebbe a Luigi Nono, lui lo definirebbe diatonico”. “Poi mi sono informato da un esperto : che mi voleva dire Giovanna?” Che sei totalmente stonato”.
Il secondo episodio riguarda un concerto organizzato da Ricki Gianco a Milano, alla Fabbrica del Vapore.
Mura si lascia convincere a cantare un pezzo. Ne sceglie uno che reputa privo di passaggi impegnativi, “La rosa Bianca” di José Martì ( in Italia incisa da Sergio Endrigo). Alla fine del pezzo, una coetanea di Gianni Mura gli si avvicina: “E’ stato bellissimo, posso abbracciarla? E’ la prima volta che sento uno più stonato di me!”.
Ovviamente essere stonati non impedisce di ammirare quelli che sanno cantare e, soprattutto, hanno saputo creare, attraverso le loro canzoni, le immagini e i suoni destinati a restare dentro di noi e a formare una specie di colonna sonora della nostra vita. E il libro di Mura questo vuole essere: un omaggio ad alcuni degli artisti che hanno contribuito a costruire la sua personale colonna sonora: Edith Piaf, Sergio Endrigo, Enzo Jannacci, Francesco De Gregori e molti altri.
Il capitolo più bello è quello dedicato a Sergio Endrigo.
Serio, Elegante, Ribelle, Giovane, Intimista, Orgoglioso
Essenziale, Nostalgico, Dolceamaro, Realista, Impegnato, Giramondo, Onesto.
Con questi aggettivi, ognuno dei quali, inizia con una delle lettere che formano il suo nome e cognome, Mura definisce il cantautore, del quale racconta gli inizi stentati, gli anni del successo e il mestissimo tramonto. Di questo capitolo faccio una piccola anticipazione. Dopo una lunga gavetta, Endrigo è arrivato finalmente al successo.
Le sue canzoni e il suo modo di cantare destano l’attenzione di Alighiero Noschese, che decide di fare dell’imitazione di Endrigo uno dei suoi cavalli di battaglia. Vestito di nero, circondato da ballerine piangenti e velate, canta sull’aria di Lontano dagli occhi “Non fate le corna/ nonfatemi torto/ io jella non porto/ ma rider non so”
Endrigo abbozza, essere dipinto come un menagramo non gli fa piacere, ma non desidera invocare la censura.
A quel punto Noschese alza il tiro. Circondato dalle solite ballerine piangenti, sull’aria di Ci vuole un fiore, intona : “Per far la bara/ ci vuole un morto”. Endrigo reagisce immediatamente. Dice a Sergio Bernardini, patron della Bussola di Viareggio, che pochi giorni dopo ospiterà uno spettacolo di Noschese: “Dì da parte mia a Noschese che se insiste nel dipingermi come il protagonista della Patente di Pirandello, appena lo incontro gli spacco la faccia!” Commenta Gianni Mura: “Fine delle imitazioni funebri”.
Pieno di spunti interessanti è anche il capitolo su Enzo Jannacci. Anche qui solo una piccola anticipazione. Riguarda l’imbarazzo del cantautore quando gli arrivano le frecciate sul suo doppio ruolo di artista e di medico. Frecciate che arrivano sia dai pazienti in corsia ( “Credevo mi portassero in Ospedale, invece sono in tv”) sia dal primario ( “Nel mio staff ho sei aiuti, tre anestesisti e un cantante”). Jannacci, ci spiega Mura, ci soffriva, ma cercava di sdrammatizzare : “Se a mio figlio ingrossano le tonsille non chiamo Celentano”.
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