Famiglia
Concita De Gregorio. Il dolore è anche una parola
Il dolore è una parola il cui suono è sempre chiaro: facile da ascoltare anche quando non ci appartiene direttamente. Ma il dolore è anche una parola il cui significato spesso viene frainteso, il cui senso spesso viene confuso con pregiudizi e con altre parole che nulla c’entrano.
Una parola che spaventa e che incuriosisce, ma che raramente risveglia: perché l’istinto dice che è sempre meglio proteggersi, farsi scudo. Chi vi si trova nel mezzo è spesso atterrito mentre chi vi entra solo perifericamente in contatto rimane come in un ciclone confusamente sospeso tra terra e cielo intuendo solo a malapena la tragedia.
Concita De Gregorio con Mi sa che fuori è primavera (Feltrinelli, Milano 2015) crea una connessione tra un dolore solitamente muto e impietrito e una biografia comune fatta di giorni che con tutte le differenze del caso vivono nella medesima quotidianità, delle medesime ansie, paure, e dei medesimi amori più o meno fragili, più o meno complicati. Concita De Gregorio costruisce attorno alla storia di Irina Lucidi e delle sue figlie rapite (e mai più ritrovate) dal padre poi suicida – un’impalcatura capace di contenere in ogni sua forma e suono il termine dolore.
Mi sa che fuori è primavera è un racconto che non si sovrappone mai alla voce di Irina, ma che pazientemente si svolge tra sensazioni e ricordi minimi, tra ambizioni e passioni frustrate. Una scrittura piana che stende le parole e le frasi come originate da un biglietto appallottolato ora aperto sul tavolo che necessita continuamente di essere appianato e disteso con la giusta dolcezza e con la giusta fermezza.
Il tempo, dopo il dolore è la seconda parola che muove il libro e che mette in scacco il dolore inglobandolo in una dimensione altra che non può avere spazio – pur avendo memoria – nella vita e nel cuore di chi lo ha subito. Irina parla, il suo è un racconto orale di una vicenda che non potrà mai dirsi conclusa proprio perché lei stessa ne è testimone e quindi sopravvissuta. Due le voci che si alternano tra le pagine, una è quella della testimonianza di Irina che si fa ricordo come intuizione: sono pagine dense, a volte dolorose e che lasciano intatto il sapore di una conversazione orale che vive della gioia e degli affanni di una quotidianità che nulla c’entra con la vicenda. E saltano fuori dalla memoria titoli di libri, passioni, musiche e salgono alla mente ricordi minuti e necessarie confessioni. Un miscuglio che restituisce una complessità luminosa nella sua estrema e rigorosa vitalità. Perché alla morte Irina non concede nulla: non una parola, non un minuto, mai più un pensiero.
L’altra voce sotto forma di brevi appunti è quella di Concita De Gregorio. Una voce a tratti imbarazzata, turbata, ma decisa a rimanere sul campo non sottraendosi alla storia e a questa donna straordinaria, così determinata quanto decisa. Queste pagine sono un riprendere fiato: dei lunghi respiri necessari in cui oltre al libro e ai suoi fatti cresce e si sviluppa una relazione tra due donne prima lontane e ora vicine, prima inconsapevoli l’una dell’altra e ora l’una e l’altra tra di loro necessarie.
Mi sa che fuori è primavera non è un libro di cronaca e non è un libro sulla violenza famigliare o sulla pazzia omicida che ogni tanto compare in quello che pareva un ritratto armonico o una giornata qualunque, ma è prima di tutto l’incontro tra due donne che decidono di farsi voce unica. La vicenda che chiaramente è decisiva rimane un dato oltre il quale è necessario andare e questo fa il libro: racconta, va oltre, costruisce e fa fare a Concita De Gregorio con Irina una storia. Un libro è sempre un oggetto esile, sfogliabile: una sorta di contenitore naturale di leggerezza che ha il proprio nucleo in quell’irriducibile segno che è la parola. Un nucleo capace di costruire relazioni di senso e di significato. Mi sa che fuori è primavera va attraversato, ripreso e sottolineato perché contiene la spudorata leggerezza di una memoria che pretende di sciogliersi nel presente rivendicando morbidezza e non durezza. La memoria viva è quella che scaturisce dal frammento raccolto e non dalla pietra monumentale.
“Cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli spazio”, scrive Italo Calvino ne Le città invisibili e questo fa Concita De Gregorio: si china e raccoglie dei frammenti e dando loro una voce li porta fuori dove le ombre non s’addensano più. Essere sopravvissuti significa spesso anche farsi carico di una colpa che è quella di chi non ha evitato o non ha impedito che il male prendesse forma. Un peso tanto più grande quanto più quel dolore venga dagli altri dato per scontato isolandolo e giudicandolo. Dare voce è dare fiato e prendere coscienza – anche se non lo si è vissuto, anche se non si è capito tutto – di una storia che appartiene e coinvolge tutta una comunità.
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