Letteratura

Con la furia di un bambino che gioca: la poetica di Umberto Fiori

2 Gennaio 2019

Nel 2014 Mondadori raccoglie l’opera omnia di Umberto Fiori e la pubblica in un libro dal titolo Poesie 1986-2014. In copertina, su uno sfondo blu no-sfumatura, un palazzone di quelli come se ne vedono tanti, fatto di uffici forse, o di case.

 

Umberto Fiori, Poesie 1986-2014, Mondadori 2014

 

È facile immaginarsi persone lì dentro, intente al loro quotidiano vivere, intessuto di sé e degli altri, di dialoghi e di viste su quello che c’è fuori; persone che, nella maggior parte dei casi, rimarranno per noi senza un nome o una storia ma che, nel loro esserci come presenza o come presenza e parola, influiscono e influiranno incessantemente sul nostro esistere. Non hanno nome, al più una professione o un compito momentaneo, non sappiamo da dove vengono né dove stanno andando, non conosciamo i loro sentimenti: sono loro, ma potrebbero essere altri. Qui sta la prima grandezza di Fiori, nell’adozione di un protocollo di tipizzazione, dove anche le coordinate storico-geografiche sono assenti o generiche, in cui nessuno è e tutti potrebbero essere. L’eliminazione del background, dei connotati diaristici, dei moti interiori dell’animo, insieme alla generalizzazione del sé rende ogni componimento un exemplum, in cui l’abitudine noiosa e ripetitiva può essere interrotta e sconvolta da un fatto che svela, all’occhio in grado di percepirlo, un senso altro delle cose.

Una magnetica dicotomia nel concepire e nel parlare di un’esistenza, quella generica e generale di cui tutti godiamo, e quindi dell’esistenza particolare e personale come quella che tutti viviamo. La morsa dualistica in cui stringe la poetica di Fiori si snoda allora tra l’evento comune, banale, quasi scontato, estrapolato da un’ipotetica vita di tutti i giorni di un qualsiasi uno, e l’evento improvviso, straniante, casuale, che sovverte l’ordine e lo sguardo, che spalanca le persiane dell’attenzione su un modo straordinario di osservare e percepire l’ordinario, saldamente ancorato al suo ripetersi perpetuo, rassicurante, noioso, vitale. Perché, va sottolineato, il momento del miracolo non arriva come un deus ex machina dall’alto, ma è l’esito collaterale di qualcosa di normale andato storto, di qualcosa che, per qualche ragione, non si incastra col prestabilito procedere cadenzato delle cose, così come ce lo si aspetterebbe per norma, consuetudine o abitudine. È un incidente, una discussione, un pensiero che può potenzialmente capitare a tutti, in cui ognuno potrebbe capitare. C’è un presente, un contesto cittadino/metropolitano, la contemplazione di un reale locus amoenus; c’è un soggetto che potrebbe essere anche un altro; ci sono tutte le possibilità schierate in fila lì davanti e c’è la stagnazione della quotidianità nell’azzeramento totale di specificità a cui Fiori dà vita: ma proprio l’assenza di particolari e la costruzione situazionale sempre riferita a personaggi-quidam consente, a chiunque si accinga alla lettura delle poesie, di insinuarsi al loro interno senza fare rumore, di immedesimarsi, di poter essere costante protagonista. Il nascondimento/assenza dell’io poetico nella sua tradizionale forma diaristica e auto-narrante spalanca, infatti, spazi grandissimi che possono spaventare o ammaliare, condurre alla meta o creare disorientamento ma che, comunque, determinano un continuo rimbalzo riempitivo nella riflessione che inevitabilmente mettono in azione. Seconda grandezza di Fiori.

L’ordinario rende possibile lo straordinario: lo straordinario rivela l’ordinario; la generalizzazione consente l’unicità: l’unicità vale se esiste un generale; il lessico comune svela un pensiero complesso: la complessità del pensiero filtra tramite la semplicità del linguaggio; l’Io e gli Altri: altri e io. Magnificamente tutto dualistico nella poetica di Fiori, senza baratri ma con gli opposti uniti dall’accompagnamento permesso dal ponte incisivo delle metafore, sempre riuscitissime, pungenti, alle volte ironiche, a tratti sbalorditive. Perché i versi del poeta lasciano, spesso sorridendo, a bocca aperta.

E poi è moderna, quasi avanguardistica la virtualità che accompagna i componimenti di Fiori, terza sua grandezza; una virtualità che non coincide con la non-realtà, bensì con le infinite possibilità in perenne potenza e, dunque, di sola parziale attuazione che la realtà stessa offre. Fiori è un poeta generoso e lungimirante: priva e si priva dell’elemento lirico-autobiografico, pur supportando con continuità una precisa visione del mondo, e fa sì che tutti, nessuno escluso, possano godere del miracolo, ristabilendolo nel ciò che potrebbe essere.

Due parole vanno spese anche per la quarta grandezza di Fiori, cioè l’uso consapevole e volontario di un lessico semplicissimo, fatto di parole come casa, cose, autobus, cane disposte all’interno di strutture sintattiche basilari; eppure, in questa forma ricercatamente elementare del linguaggio, Fiori diventa riconoscibilissimo e unico, rendendo il significante del tutto funzionale al suo significato.

Una poesia di libertà, poesia di sfida, poesia di sguardo, poesia sempre sorprendente, che sospendendo la scena un attimo prima che la spada affondi, lascia eternamente incolumi come se tutto, davvero, fosse ancora possibile, ogni cosa potesse ancora succedere.

Perfino il grande assente -perfino lui- l’amore.

 

Apparizione

Alte sopra la tangenziale, chiare,

due case con in mezzo un capannone.

È questa l’apparizione,

ma non c’è niente da annunciare.

 

Eppure solo a vederli

là fermi, diritti davanti al sole,

i muri ti consolano

più di qualsiasi parola.

 

Cancellate, ringhiere,

scale, colonne, cornicioni:

ha l’aria, tutto, come se qualcuno

dovesse veramente rimanere.

 

Capo

Quando uno per strada

sente chiamare “Capo!”

e si volta, e si accorge che ce l’hanno

proprio con lui,

gli sembra un onore grande

essere lì presente: uno che passa,

un uomo valido, che può dare una mano

e poi sedersi a tavola, magari

al ristorante, mordere il pane

e ricordarsi il mondo della luna,

dove non si era niente.

 

Fuori

Non c’era più mezza parola

che fosse mia. Come dopo muggiti,

risate, pianti, mentre il tavolino

trema e s’impenna, la voce rauca del morto

riempie la sensitiva, dopo due frasi

mi riempiva la gola -ti ricordi?-

la più perfetta antipatia.

 

Ho visto, da bambino,

scorticare un coniglio appeso a un gancio

con uno strappo: così stavo io

davanti a voi. Fino alla carne viva

mi si vedeva. Ero tutto di fuori,

in quel verso mostruoso

che ci teneva insieme, né mio né vostro.

 

Più mi scoprivo, più

vi restavo nascosto: tutto intero

mi avete avuto in mano,

e ancora non sapete

che cosa sono.

 

Desiderio

Essere la mia faccia,

finalmente

liberata di me.

 

Stare al mio posto, nei miei panni:

blue-jeans e t-shirt di marmo.

 

Avere l’età che avevo:

quarantacinque anni.

 

Non diventare più.

Assomigliarmi.

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