Ciclismo
Ci vuole un fisico bestiale
Bologna, sabato, 2 giugno 1956. Nella cronoscalata del Santuario di San Luca, un uomo, anzi un leone, stringe i denti in salita. Non li stringe per metafora, li stringe davvero attorno a un tubolare sgonfio e legato da un capo al manubrio.
Questa storia ha per protagonisti due uomini di altri tempi, con nomi di altri tempi, antichi, da Toscana granducale: Fiorenzo e Faliero.
Fiorenzo è Fiorenzo Magni, da Vaiano di Prato: ha trentacinque anni, tre Giri d’Italia vinti – l’ultimo soltanto l’anno prima – , tre trionfi consecutivi al Giro delle Fiandre – 1949, 1950 e 1951 – , che gli sono valsi il soprannome di Leone delle Fiandre; e una vita ciclistica e umana che pare un romanzo d’avventura.
Faliero è Faliero Masi, da Sesto Fiorentino: ha quarantott’anni ed è il meccanico della Nivea-Fuchs, la squadra di Magni. Anche lui ha un soprannome: lo chiamano il Sarto per la precisione e lo stile con cui mette a punto le misure dei telai e assembla le bici dei campioni. Da lui sono passati e passeranno i migliori, da Coppi ad Anquetil a Merckx.
Tre giorni prima, il 29 maggio, Fiorenzo è caduto in discesa, a Volterra, nella Grosseto-Livorno. Si è rialzato e ha portato a termine, ma all’arrivo i medici gli riscontrano la frattura composta della clavicola. Gli consigliano di abbandonare. Ma Fiorenzo è testardo: vuole continuare. Quello è il suo nono giro: ne ha vinti tre e gli altri cinque li ha portati a termine tutti entro i primi dieci. Di mollare non ci pensa neppure.
Il giorno dopo c’è una cronometro, 45 km da Livorno a Lucca, e lui ci vuole provare: si fa mette della gommapiuma sul manubrio, per attenuare le vibrazioni e parte. Meglio di quanto pensasse.
Decide di andare avanti, ma il sabato, quando a Bologna la mattina prova il percorso della salita del San Luca, le pendenze della curva delle Orfanelle gli fanno vedere le stelle. A ogni strappo di braccia sul manubrio, sono fitte di dolore.
Faliero, il Sarto, s’inventa allora l’escamotage. Lega un tubolare sgonfio al manubrio. L’altra estremità finisce tra i denti di Fiorenzo che userà così i muscoli del collo per aggrapparsi al manubrio in salita. Magni parte con una specie di briglia in bocca per tenere a bada il suo ferreo destriero. Una scena da fachiro. Magni ha trentacinque anni, una pelata da sessanta e, al centro del volto deformato dallo sforzo, un naso schiacciato come una scarpa, segno di una caduta di quasi vent’anni prima.
Se l’avessero disegnato su quella salita verso il Santuario, non l’avrebbero fatto più brutto. Ma cosa vuoi che sia per uno che nella vita e nelle corse le ha date e prese come un pugile sul ring?
Facciamo un passo indietro. Otto anni prima, era il 1948, Fiorenzo Magni vinceva il suo primo Giro d’Italia. Ma vinceva tra mille polemiche e sospetti. Nella tappa dolomitica da Cortina d’Ampezzo a Trento, Coppi, attardato in classifica nelle precedenti giornate, aveva sferrato il suo attacco alla maglia rosa, Ezio Cecchi, e aveva vinto per distacco, recuperando quasi del tutto lo svantaggio (circa 8 minuti) sul primo in classifica. Gli aveva però resistito il secondo, che era proprio Magni, giunto a 2 minuti e mezzo. Ma, come poi venne accertato anche dalla giuria, Magni, indomabile su tutti i terreni ma abbastanza piombato in salita, ricevette decisive e sistematiche spinte dai tifosi lungo il passo del Pordoi.
La giuria decise però di limitarsi a una penalizzazione di 2 minuti, senza prendere in considerazione la squalifica: e Magni a Trento indossò la maglia rosa. Per tutta risposta, in segno di protesta Coppi e la Bianchi decisero, con grande clamore, di ritirarsi dalla competizione.
Magni due giorni dopo arrivò vincitore al Vigorelli accolto da un’assordante salva di fischi. Contro di lui si era scatenata la stampa, soprattutto quella dell’Unità, il giornale del PCI, che all’epoca seguiva la corsa rosa con due firme di grande prestigio: Attilio Camoriano per la parte tecnica, e il poeta Alfonso Gatto, per i pezzi di colore. Per loro Magni non era solamente il ciclista che aveva approfittato dell’indulgenza della giuria, ai danni dell’amatissimo Coppi – Camoriano era amico di Fausto, Gatto ne era un tifoso incantato, al punto da chiedergli un giorno di insegnargli, invano, ad andare in bicicletta – , ma era soprattutto il “fascista” che ancora una volta l’aveva impunemente fatta franca. Si arrivò a ipotizzare che tra i tifosi posizionati sulla salita del Pordoi ci fossero addirittura i celerini del ministro Tambroni, già miliziano fascista.
All’origine di tutto era al processo di Firenze a cui nel febbraio del 1947 Magni era stato sottoposto con l’accusa di aver preso parte, lui, milite della Sicurezza Nazionale della Repubblica Sociale, insieme alla famigerata Legione Muti, allo scontro con una brigata di partigiani locali a Valibona, sulle montagne intorno a Prato, nel gennaio del 1944, e di essere stato addirittura l’esecutore materiale dell’uccisione di Lanciotto Ballerini, leggendario comandante della banda partigiana. Magni, poco dopo questi fatti, era fuggito da Prato e dalla Toscana, mettendo radici a Monza, che da quel momento divenne la sua nuova “patria”. Al processo del 1947 venne assolto, sia perché non vennero riscontrate prove certe rispetto alle accuse, sia anche per l’effetto della cosiddetta amnistia Togliatti. A testimoniare al processo, si presentò, unico tra i colleghi ciclisti chiamati dal giudice, l’amico e collega Alfredo Martini, che in quegli stessi anni aveva scelto la parte avversa, salendo sulle montagne e agendo come ufficiale di collegamento tra i partigiani.
Al Vigorelli i tifosi non si è mai saputo se fischiassero il “re delle spinte”, come lo aveva sarcasticamente definito Alfonso Gatto, o se scorgessero ancora spuntare la camicia nera sotto quella maglia rosa. Magni sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Lo aveva confessato, adombrando una sorta di ammissione di colpa, a due giornalisti che avrebbero fatto la storia della stampa italiana: all’arrivo di Udine, il 31 maggio 1948, quando conquistò per la prima volta la maglia rosa – per poi riperderla il giorno seguente a vantaggio di Cecchi – Magni venne intervistato da Indro Montanelli, inviato del “Corriere della Sera”, al quale disse:
«Ho bisogno della maglia rosa, ma per una tappa sola. Essa segnerà il mio ufficiale rientro nel ciclismo, dove per ora sono soltanto un tollerato».
Il 3 giugno, dopo la tappa Auronzo-Cortina, che lo vedeva ancora al secondo posto, rispose così al giovane cronista bolognese di “Stadio” che rispondeva al nome di Enzo Biagi:
«Ritorno al mondo, ho ancora gli applausi, le fotografie, parlerò alla radio, ciò vorrà dire che ho scontato la mia colpa, che gli errori sono stati dimenticati».
Non andò proprio come se l’aspettava: al Vigorelli volarono cuscini sulla pista e insulti all’indirizzo di quello che, al cospetto dei due giganti antagonisti del ciclismo italiano, Coppi e Bartali, sarebbe diventato di lì a poco “il Terzo Uomo”, prendendo spunto dal titolo di un film di successo del 1949.
Le polemiche non abbandonarono mai la carriera del Terzo Uomo. Al Tour del 1950, quando vestiva la maglia gialla, venne costretto a rinunciare a ogni ambizione di vittoria per il ritiro in massa della rappresentativa italiana che così rispondeva alle aggressioni ricevute da Bartali lungo il percorso. Nel Giro del 1955, con la complicità di Coppi, il vecchio Fiorenzo giocò un’atroce beffa ai danni del giovane quasi compaesano Gastone Nencini, attaccato e staccato alla penultima tappa, la Trento-San Pellegrino, quando fu vittima di ripetute forature. E infine, l’anno successivo, l’indomito Leone fu protagonista al Giro di Lombardia di una clamorosa rimonta ai danni di un Fausto Coppi in fuga e probabilmente destinato a coronare l’ultimo successo della sua straordinaria carriera. Magni, ferito nell’orgoglio da un’inconsulta provocazione della turbinosa Dama Bianca che, al seguito della corsa, fece il gesto dell’ombrello agli inseguitori, ormai rassegnati, del suo Fausto, scatenò la bagarre nel finale. Il Campionissimo, raggiunto alle porte di Milano e quindi battuto in volata da un colpo di reni di André Darrigade, si lasciò andare in un pianto da ragazzino disperato.
Il “caso Magni”, umano, sportivo e politico, è emblematico di come le lacerazioni degli anni della guerra civile non abbiano mai ritrovato nel Paese una meditata e pacifica soluzione. Magni stesso fino alla fine dei suoi anni non volle, o non seppe mai fare davvero chiarezza su quella zona grigia che lo aveva visto agire tra il 1943 e il 1945: ci sono addirittura testimonianze di una sua attività di sostegno alla Resistenza quando passò a vivere in Brianza, a testimonianza che le distinzioni nette e irrevocabili nella mente e nel cuore degli uomini appartengono soltanto a una visione superficiale e di comodo delle vicende individuali e collettive di un Paese.
Di lui resta comunque nel repertorio della memoria di chi interpreta il Giro d’Italia come uno straordinario saggio di antropologia culturale della nazione, l’immagine di quella figura fatta di muscoli, ossa rotte, tubolari sgonfi e telaio d’acciaio, che saliva sbilenca e sofferente per la personale Via Crucis del San Luca, di quel sabato 2 giugno del 1956, incitato e sospinto dall’abbraccio appassionato della città (allora) più rossa e comunista d’Italia.
PS
Va da sé che, leggendo questa storia, la colonna sonora non può che essere questa.
PS del PS
Fiorenzo Magni detiene il record di essere il ciclista ad aver vinto il Giro all’età di 34 anni, 5 mesi e 29 giorni: il più vecchio vincitore della corsa rosa. E se quest’anno, in cui il Giro prende le mosse proprio dal trampolino di San Luca, nella Bologna che da rossa si è sbiadita di rosa (e non solo in questi giorni) qualcuno, il cui nome fa rima con Fiorenzo, decidesse che è tempo di battere questo record?
Fonti
Walter Bernardi, Il “caso” Fiorenzo Magni, Ediciclo Editore, 2918
https://www.ediciclo.it/libri/dettaglio/il-caso-fiorenzo-magni/
Auro Bulbarelli, Magni. Il terzo uomo, Rai Eri, 2012
https://www.ibs.it/magni-terzo-uomo-ediz-illustrata-ebook-auro-bulbarelli/e/9788893160209
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