Letteratura
Caso Elena Ferrante: quando siamo diventati così morbosi?
Deve esserci stato un momento preciso in cui abbiamo deciso – lettori, librai, scrittori, giornalisti soprattutto – che l’essenza dell’autore è il suo nome, e il suo nome deve essere cosa nota. Per diritto. A tutti. Nonostante il desiderio dell’autore stesso. Soprattutto se è di successo. Soprattutto se fa invidia a molti.
Lo abbiamo deciso tanti anni fa, per assecondare quella morbosità connaturata nell’uomo che anche negli affari di cultura affiora e si nutre di gossip, di ossessione, di curiosità d’atmosfera catadoica. Tutto è mascherato, naturalmente, da spirito di indagine e da necessità di comprensione del profilo di chi qualcosa scrive, per comprenderne l’anima e la portata. Si tratta di una straordinaria ossessione pseudo-culturale che aveva già toccato l’apice nel 2005, quando il Paese intero era in attesa di scoprire il nome (e il viso e il corpo) di Melissa P. che si rivelò da sola, senza che nessun giornalista si mettesse sulle sue tracce.
Un passo avanti è quello adesso ad opera del 2016, che con l’incredibile impegno di Claudio Gatti arriva a ricostruire sulle pagine del Sole 24ore il caso Ferrante. Si tratta di un’indagine che coinvolge conti in banca, appartamenti acquistati e per il quale il giornalista, secondo il direttore Roberto Napoletano: “si è immerso dentro le pieghe più nascoste di questo mistero. Carta dopo carta, verifica dopo verifica, ha trovato i segni che lo hanno portato a identificare “l’immaginaria figlia di una sarta partenopea” nella traduttrice Anita Raja, questo nome è stato fatto più volte, e a trovarne la conferma nei suoi compensi scanditi dai tempi e dai successi delle opere di Elena Ferrante, questo non lo aveva documentato ancora nessuno”.
Una ricerca oggettivamente necessaria. Non dovevamo forse saziare questa anomala curiosità? Non dovevamo forse dare un volto e un corpo e una storia a chi rifuggiva in controtendenza generale dai riflettori? Non dovevamo forse castigare anche Elena Ferrante, scrittrice dal milionario successo (come si apprende dal Sole24 ore, in barba a qualsiasi tipo di necessità, dai bonifici effettuati dalla casa editrice e/o), e costringerla a comparire con il suo vero nome e cognome su Google, a creare un profilo Facebook e riempire di stupide constatazioni twitter?
Il caso Elena Ferrante non è solo il risultato di un’inchiesta (se così la si vuol definire) infelice. E’ l’emblema della necessità di assecondare senza limiti la morbosità dei nostri tempi a danno del singolo. E’ la fotografia dell’arroganza del mondo giornalistico. E’ un’istantanea dell’aggressività gratuita e della brutalità assoluta con cui il mercato annulla la privacy di chiunque possa essere oggetto di interesse: una protagonista di reality, una scrittrice, una porno attrice. Il rispetto è diventato anacronistico. La cultura televisiva del “Che si prova quando un figlio muore?” si è fusa con le aspirazioni investigative alla Riccardo Iacona, producendo un mix moderno in salsa Chi l’ha visto?
Era il 9 dicembre 1973 quando, sulle pagine de Il Corriere della Sera, Pierpaolo Pasolini scriveva:
“Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”.
Per uno strano e sinistro gioco di rimandi, questa storia, racconta esattamente questo.
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