Letteratura
Caos anziché musica
L’immagine di un uomo in piedi su un pianerottolo di un palazzo russo, in terra una valigetta contenente biancheria e polvere dentifricia e tre pacchetti di Kazbek, nelle gambe lo slancio represso di un passo avanti verso un ascensore che potrebbe aprirsi per cambiargli la vita o restare perennemente chiusa, alle spalle la porta verso cui vorrebbe tornare. La stessa immagine per dieci notti insonni, in attesa del Potere, qualsiasi cosa voglia dire, qualsiasi forma assuma.
L’uomo che non dorme è il compositore russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič.
La sua musica, e con lei la sua intera vita, furono censurate da un editoriale di Stalin apparso sulla “Pravda” nel 1936, dopo aver ascoltato al Teatro Bol’šoj l’opera Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk che fino a quel momento aveva ricevuto enorme successo ed era stata replicata centinaia di volte. La musica di Šostakovič fu accusata di formalismo e nevrastenia, di essere adatta a un uditorio borghese e non al popolo. Di non essere musica, solo caos.
Šostakovič viene bollato come “nemico del popolo”, i critici gli voltano le spalle, dimenticano qualsiasi cosa ci fosse stato di buono in lui. Diventa vittima del terrore, interiore ed esterno, in attesa perenne di possibili aguzzini che decide di aspettare insonne sulla porta per non spaventare la moglie e la figlia, un fermo immagine che resta impresso come simbolo della paralisi dell’uomo e del destino di quel periodo storico.
Il compositore usa le interminabili ore di attesa notturna per riflettere e per ricordare e per provare liberamente paura, consapevole che è più facile essere un eroe che un vigliacco – perché questo richiede impegno e costanza -, confidente che di lui sopravviva solo la musica, nella sua immortalità: “Che cosa poteva contrapporre al rumore del tempo? Solo la musica che viene da dentro – la musica del nostro essere – che alcuni sanno trasformare in musica reale. E che se nei decenni a venire sarà abbastanza forte e pura e autentica da annegare il rumore del tempo, si trasformerà nel mormorio della storia”.
Le riflessioni di Šostakovič si interrogano sul presente e sul passato, temono il futuro. Si chiede quando è iniziato tutto questo e i suoi pensieri gli rispondono che “niente comincia proprio così, un certo giorno e in un certo posto”, ma piuttosto tutto comincia in tanti posti e in tante volte e che la colpa avrebbe potuto essere la sua opera, la sua fama, i suoi genitori o lo stesso Stalin, infallibile e allo stesso tempo responsabile di ogni cosa.
Scadenzati dagli sfortunati anni bisestili, al primo colloquio con il Potere ne seguiranno altri due nel corso della vita di Šostakovič, uno dei quali con la voce di Stalin che lo convoca per farlo partecipare alla delegazione URSS che visiterà gli Stati Uniti, dove sarà tenuto a pronunciare un discorso di propaganda sovietica, la sensazione di assedio da ogni lato e l’unica speranza di fuggire il più in fretta possibile dall’esperimento in cui si è trovato incastrato; l’ultimo avverrà durante la fase del disgelo, sotto il governo di Chruščëv, che riabilita il compositore per sfruttarne la fama a vantaggio del Partito e della nuova immagine del Paese.
La vita intera avvertita con l’angoscia di essere senza scampo e con la pesantezza della rassegnazione imposta, l’impossibilità dell’alternativa, l’agognata coerenza, ogni tanto la sensazione di essere un uomo morto e in ogni caso la certezza di non convivere più con la propria anima: “Un’anima può essere distrutta in uno dei seguenti tre modi: attraverso ciò che ti fanno gli altri; attraverso ciò che gli altri ti costringono a fare a te stesso; e attraverso ciò che tu stesso decidi di farti. Ognuno di questi metodi è di per se sufficiente; certo in presenza di tutti e tre, il risultato è impareggiabile”.
“Il rumore del tempo” di Julian Barnes (trad. Susanna Basso), Einaudi Editore, 200 pagine.
– L’illustrazione è di Jindrich Novotny –
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