Letteratura

“Canto di Natale”, la favola realistica di Charles Dickens

“Canto di Natale” scritto da Charles Dickens nell’autunno del 1843, ha per protagonista il vecchio Ebenezer Scrooge, un duro destinato a intenerirsi. Una favola moderna sempre attuale.

20 Dicembre 2024

Canto di Natale (A Christmas Carol) scritto nell’autunno del 1843, ha per protagonista il vecchio Ebenezer Scrooge. Tenuto a distanza da tutti, l’uomo non fa nulla per nascondere il proprio astio nei confronti del mondo intero e, in particolare, la propria indifferenza verso il Natale. Si sta preparando a passare la festività da solo, nella sua triste casa, quando la notte della vigilia, gli appare il fantasma di Jacob Marley, il suo socio in affari morto da anni, il quale gli annuncia che tre spiriti verranno a visitarlo. Il vecchio Scrooge, terrorizzato, si predispone psicologicamente ad affrontare notti da incubo. Il primo spirito che gli appare, il “fantasma dei Natali passati”, gli rievoca alcuni momenti della sua vita da bambino e da giovane. Il secondo, lo spirito del “Natale presente”, gli fa provare il calore di una festa modesta ma colma di amore. Il terzo, lo spirito dei Natali futuri, gli indica alcuni loschi individui intenti a spartirsi i suoi beni e la tomba dove lui finirà, solo e inaridito dal proprio cinismo. Alla fine, quando Scrooge si risveglia, è una giornata splendida, ed è Natale. Il messaggio trasmessogli dalle visioni notturne riuscirà a compiere il miracolo. Il vecchio indurito dal rancore verso tutta l’umanità si trasformerà in un uomo nuovo, generoso e pieno di attenzioni per il prossimo. (Sinossi redazionale non firmata nel risvolto di copertina della mia copia).

***
Canto di Natale è una meditazione-racconto scandita in cinque lasse narrative che mimano i cinque atti di una tragedia shakespeariana sulla convivenza umana e indirettamente sul sistema capitalistico, denunciato in più luoghi della narrazione come un sistema di vita e una concezione del mondo intessuti solo da valori acquisitivi cui occorre contrapporre quei valori di solidarietà e compassione che dovrebbero addolcire i suoi animal spirits.
Centrale in questa prospettiva nel dialogo con lo spirito di Marvey le parole pronunciate da quest’ultimo.

«Gli affari! (…) L’umanità avrebbe dovuto essere il mio affare. Il benessere generale avrebbe dovuto essere il mio affare: carità, clemenza, pazienza, benevolenza, tutto questo avrebbero dovuto essere i miei affari. I miei commerci non erano che una goccia d’acqua in quell’oceano d’affari.»

Come altre opere inglesi (penso alla favola nera del Signore delle moscheCanto di Natale è un’operetta morale (sulle orme di Swift), una narrazione in forma di parabola sul nostro sistema di vita, e questo proprio nell’epoca in cui il capitalismo, dopo le rapide della rivoluzione industriale di fine Settecento, gorgogliava nella pianura ribollente del primo scorcio dell’età borghese dell’Ottocento.

Ma a differenza del pessimismo di Swift sulla pianta-uomo, qual è il punto di vista di Dickens? Ricordiamo ancora che di mezzo c’è l’avvento della rivoluzione industriale e del capitalismo. Non è quindi una meditazione astratta sull’uomo, ma sull’uomo nell’era della rivoluzione industriale e capitalistica. Dickens non è un conservatore compassionevole alla maniera di qualche neocon americano, anzi George Bernard Shaw scrisse che qualche sua opera era «more seditious than Das Kapital», né la sua opera intessuta di un intollerabile «sentimentalismo borghese» come ebbe a dire Lenin cui venne letto questo racconto dalla moglie qualche giorno prima di morire.
Dickens è un moralista. George Orwell di cui è nota la dedizione a Dickens commentò:

« La verità è che in Dickens il giudizio sulla società è quasi esclusivamente di tipo morale. Da qui l’ assenza totale di proposte costruttive in qualunque passo della sua opera. Dickens attacca la legge, il governo parlamentare, l’ istruzione e quant’ altro senza mai indicare esplicitamente delle alternative. Certo, formulare proposte costruttive non è necessariamente compito di un romanziere o di un autore satirico, però l’ atteggiamento di Dickens in fondo non è nemmeno distruttivo. (…) In ogni suo attacco contro la società , Dickens sembra voler auspicare un mutamento della psiche piuttosto che della struttura. (…) Più sopra dicevo che Dickens non è uno scrittore rivoluzionario nel senso universalmente riconosciuto del termine. Ma non è affatto certo che una critica puramente morale della società non sia poi altrettanto “rivoluzionaria” – e la rivoluzione, dopotutto, è un rivoltare le cose – quanto la critica politico-economica che va di moda adesso.»

Dickens, che Taine definì “il maestro di tutti i cuori”, disegna il cuore di un uomo inaridito dalla contabilità e dalla partita doppia. Nel “sistema” di Scrooge anche lo scorrere del tempo, anzi soprattutto lo scorrere del tempo, è legato esclusivamente ad attività commerciali. Quando in esordio del racconto non comprende che ore sono, e si chiede se è passato tutto un giorno dal primo incubo notturno, Dickens legge nel suo pensiero la preoccupazione che se viene a saltare la sicura successione dei giorni, l’indefettibile regolarità del tempo, le cambiali che scadono in suo favore potrebbero diventare come dei titoli spazzatura – che, per ironia della sorte, ai tempi di Dickens erano i titoli del debito pubblico degli Stati Uniti d’America. Il tempo esiste  solo per i suoi affari, non ha altro valore che quello, ed ecco che come contrappasso lo spettro dei Natali passati lo induce a prendere contezza dell’altro significato del tempo: quello della sensibilità e dei ricordi.
C’è questo nel Natale (che coincide con gli ultimi giorni dell’anno): una mesta contabilità delle aspirazioni giovanili e dell’indurimento della vita presente: questo è diventato Scrooge, quello Scrooge che è chiamato a rappresentarci tutti. (Se Scrooge porta un cognome quasi onomatopeico a rammemorare quasi una scarica di malumore, reca anche un nome biblico, Ebenezer, diffuso dai puritani che significa “pietra di aiuto”; si riferisce al nome del monumento costruito a Samuele nell’Antico Testamento, ma è un nome adespota, cioè non è portato da alcun santo, quindi l’onomastico si festeggia il 1º novembre, giorno di Ognissanti. Una ragione in più per essere chiamato a rappresentarci).

Opera di un Dickens poco più che trentenne Canto di Natale si distingue per la freschezza del dettato narrativo e la forza della rappresentazione realistica nonostante l’intonazione fantastica. La penna sorgiva di Dickens fu favorita tuttavia nell’Inghilterra vittoriana, allora il centro del mondo, dalla diffusione di massa dei giornali periodici che avevano favorito il successo dei romanzi precedenti – mentre questa è la sua prima opera uscita direttamente in volume – ma anche dall’effetto “rispecchiamento”, anch’esso un fenomeno di massa a noi ben noto (si vedano i reality) ossia quello di vedere sulla pagina ciò che non era difficile scorgere svoltando l’angolo della via. Dickens ha scritto tutta la sua opera attingendo al suo presente, senza regressioni in un facile passato, traendo la fabula dei suoi racconti dal flusso delle ore del suo tempo, che spesso sono Hard times, come dirà un suo celebre libro.

Nella Londra turbolenta di quasi metà Ottocento, in preda alla feroce lotta tra le classi sociali, la dialettica poveri-ricchi, buoni-cattivi, che non necessariamente combaciano nella successione, trova in Dickens un cantore particolarmente intonato. Dickens, che ha sperimentato sulla propria pelle i colpi dell’oltraggiosa fortuna di una infanzia dura e disperata che trasporrà di lì a poco  in David Copperfield, approdato alla condizione di intellettuale-giornalista che vive della propria penna, non affonda il suo bisturi fino all’aperta denuncia del conflitto di classe. Altro è il suo scopo. Conosce la tragedia del vivere ma non vuole portarla sulla carta senza sottoporla ad uno speciale trattamento. Consegna perciò il racconto ad un’atmosfera inconfondibile, la sua, in cui senza falsificare i dati della realtà, anzi partendo da essi (ricordiamo che Dickens venne aspramente criticato dai benpensanti per aver portato in letteratura ladri e prostitute), affievolisce la tragedia sociale in un’arietta da melodramma. Fa niente che nel mondo reale non sempre finisca così. Ma chi l’ha detto che il romanzo debba mimare la vita così com’è? Non è forse vero che talvolta questo genere letterario, il più imprevedibile e privo di regole (lawless lo definiscono gli inglesi), invochi la vita come invece dovrebbe essere, dando in positivo sulla pagina ciò che è in negativo nel mondo reale? È altrettanto vero che così operando si corre il rischio della facile consolazione, ma Dickens fa in modo che resti sempre nella mente di chi legge un retrogusto di amarezza – il massimo che egli possa concedere – tale che la composizione, nell’armonica finzione romanzesca, del caos informe della vita associata, avvenga con un sottinteso patto di tacitazione del lettore, il quale è invitato a non chiedersi troppo circa l’epilogo del suo racconto, se non vuole guastarsi la festa di una tranquilla e avvincente lettura o negarsi lo spettacolo di un mondo messo in sesto, sui suoi giusti cardini, una volta tanto.

Da qui la morale del nostro delizioso apologo. Se modificare il passato è facoltà negata anche agli dèi, se il presente è imprendibile nel suo farsi, se il fantasma del futuro fa dire a Scrooge «ho paura di te più di qualsiasi spettro che ho visto», noi che abbiamo appreso, anche da questo racconto, qual è la nostra condizione umana, impariamo una volta per tutte che nello svolgersi della nostra occasione terrena possiamo e dobbiamo ben disporci verso il prossimo, i compagni del nostro destino, del «medesimo viaggio verso la morte».

 

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