Letteratura
Campana ed Aleramo: quel “cielo fatto solo d’amore”
Dino Campana sosteneva che ci sarà “un futuro in cui l’umanità avrà finalmente capito che la poesia può giovarle soltanto a una condizione: d’essere fuori del tempo e dei suoi traffici. Un ponte sull’infinito, un messaggio lasciato a chi non c’è da chi non torna più indietro”.
La poesia come unico momento di purezza che sconfigge la consunzione e ci riannoda all’eternità.
Ecco perché Sibilla Aleramo che aveva letto i “Canti Orfici”,l’unica opera di Dino Campana, lo cerca ed intesse con lui una tormentata storia d’amore fatta di intensa passione, ma anche di percosse e violenza fisica, dalla quale è nato uno degli epistolari più affascinanti e suggestivi della letteratura d’amore.
Secondo il poeta Mario Luzi, per due temperamenti forti, l’incontro fra Campana ed Aleramo fu una “deflagrazione”.
Non aveva ancora incontrato Dino Campana ma così gli scriveva: “ […] Ora nei tuoi canti la tua vita intera è come un addio a me. Cuore selvaggio, musico cuore, chiudo il tuo libro, le mie trecce snodo…”.
“T’ho avuto tutto nel primo sguardo, così interamente.”
“M’hai detto: tu non dici: sempre, mai, come le altre”.
Si amarono tra cespugli, nei prati, in zolle di terra, nei boschi, negli anfratti delle montagne, impararono a “vivere un po’ sotto la tenda”, insieme, fra i monti di Marradi, fra gli Appennini.
Si scrivevano così:” Sempre ho negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce”.
Era questo un biglietto d’amore che Sibilla indirizzava a Dino, il quale prima di lei non aveva mai avuto una storia d’amore appassionata.
È sempre Sibilla che scrive: “I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo[…]. “Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto.Tacere insieme tanto, stesi al sole autunno. Ho paura di morire prima. Dino,Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo”.
Non si amarono in grandi alberghi, case lussuose, ma nei luoghi poveri dove viveva Campana a Marradi, in locande modeste, con mobilie di risulta.
Eppure, si scambiavano versi di pura letteratura.
Dino: “Amo e amerò Sibilla con la miglior parte di me stesso”.
Sibilla: “Ti adoro. Vivo perché hai detto che il mio amore ti è caro”.
Sibilla come noto ha avuto grandi amori e relazioni anche precedentemente a quella con Dino Campana, ma con “il poeta matto”, come era definito Campana che purtroppo conobbe la pazzia e finì i suoi giorni in un manicomio, ha conosciuto l’amore ancestrale, vivido, quello del cuore che vede le stelle. “Dino, io e te ci siamo amati come non era possibile amarsi di più, come nessuno mai potrà amare di più”.
“Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come lo reggerò[…]. Saremo soli sulla terra. Bruceremo. Hai visto come siamo vergini, che qualcosa non ci fu mai strappato? Per noi. Più a fondo, più a fondo, ci mescoleremo allo spazio, prendimi, tienimi, io non ti lascio, bruceremo”.
Era Aleramo affascinata ed inebriata dalla poesia di Dino ed era lei che scriveva tanto a lui.
Ma la grandezza del “poeta matto” si esprimeva in poche frasi, in proposizioni icastiche, scolpite nel tempo imperituro:”tutto va per il meglio, nel migliore dei mondi possibili. Come amo la povertà delle cose quassù, che meglio ci farà sentire la nostra ricchezza “.
Era definito il Rimbaud italiano, la sua era la poesia di un visionario, fatta di “purità d’accento”. Come ha scritto Carlo Bo il suo destino era “quello dell’innamorato della poesia, di chi per la poesia è pronto a perdere la propria vita”.
“L’inverno mi diverte. Sento che qualcosa resta dopotutto, come quel laghetto laggiù nella sua trasparenza che nessuno riesce ad offuscare[…]. Mi contento di poco, la felicità è fatta delle cose più leggere”.
Era consapevole della sua malattia e della brevità della sua vita: ”regalo a chi ne ha bisogno quel poco di poesia che può essere sorta in te dal nostro amore[…]. Io ti amo tanto e rimpiango la poesia solo perchè essa saprebbe baciare il tuo corpo di psiche ed il tuo volto roseo e nero con la bocca sfiorita di faunessa. Perdonami se non voglio essere più poeta neppure per te. Sai che neppure le acque ed il silenzio sanno più dirmi nulla e senti la mia infinita desolazione. Ti porto come il mio ricordo di gloria e di gioia.
Ricorda quando soffrirai, colui che ti ama infinitamente e porta per sé il tuo colore. L’ultimo bacio dal tuo Dino che ti adora”.
Il passo di Sibilla per Dino era di velluto, il suo era lo sguardo di vergine violata, gli occhi forti di luce.
Ed il loro viaggio di amore era coperto di rose, quelle rose che erano sfiorite, i petali caduti. Perché le rose non si potevano dimenticare, le cercavano insieme, erano “le sue rose, le mie rose”.
Con Sibilla e Dino si ricorda l’amore come il profumo delle rose.
Come è stato sostenuto Dino Campana possedeva la gioia che era solo dei poeti: “Possedeva una facoltà di gioire immensa, una facoltà che gli uomini comuni possiedono molto meno dei poeti. Per gli uomini comuni la gioia, diceva, è una macchina grande e perché la possano montare occorre loro spendere tutta l’esistenza in opere vili. E quando l’hanno montata, ossia quando hanno ammassato gli elementi che essi credono costitutori di gioia (ossia i denari) gli uomini sono già vecchi: non sono più in grado di godere la gioia istessa, in quanto sono come fiori che dovrebbero fiorire in inoltrato autunno, se non addirittura in inverno. Non potendo mai fiorire, o non potendo sbocciare nella loro giusta ora, gli uomini ricchi ed i potenti sono costantemente infelici[…]
Dino non possedeva nulla. Non curava alcun interesse, era senza un centesimo in tasca” (Così Luigi Bartolini).
Sarà lo psichiatra Tanzi, amico del poeta e critico letterario Cecchi, a diagnosticare la sifilide per Campana e a consigliare l’Aleramo ad allontanarsi da lui, oramai travolto dalla pazzia.
“Egregia e cara signora, ho visitato il suo amico Campana e le comunico, col dovuto riserbo, che la sua forma neurastenica è probabilmente connessa ad un’infezione luetico-degenerativa riscontrabile anche dal passo leggermente claudicante, dalla fissità dell’occhio destro, dalla comparsa, ch’egli ammette, di papule e di eritemi su tutto il corpo, in passato… Non so se riesce a seguirmi. Il signor Campana, anni fa, ha contratto il morbo della sifilide e ne è affetto tuttora. Questa è la causa dei suoi disturbi neurastenici, per guarire dei quali egli avrà bisogno di un lungo periodo di ricovero e di cure. Ma ora è di lei che dobbiamo occuparci, per quanto la cosa possa sembrarle sgradevole e di fatto lo sia. È necessario predisporre accertamenti rigorosi per stabilire se anche lei ha subito il contagio e se ne è portatrice. E poi anche è necessario, m’intende, interrompere questa relazione che non può condurre a nulla di buono, né per lei né per il suo amico. Le parlo come parlerei a una figlia. Di fronte alle pene per sifilide, quelle d’amore scompaiono.” (da “La Notte della Cometa” di Sebastiano Vassalli).
Si amarono nella notte del Natale del 1916: “Non poter che consumarmi, sempre più. Non ho più voce per parlarti. Soltanto le mani sono ancora dolci. Stanotte, ti daranno il sonno? Nel tuo paese. E poi addormentarmi – e svegliarmi il mattino di Natale, bimba. C’è un bimbo, un fratellino vicino a Rina – oh Dino, Dino, che cosa si scioglie nel cuore di Rina? Silenzio, tienmi le mani. Nessuno m’ha detto mai, da bimba, una favola bella. Guardavo le stelle, come te. Stanotte non ci saranno. Ci saremo noi, favole, stelle, cose lontane, irraggiungibili. Nessuno mai più ci coglierà, anche se crederà vederci, sentirci. Stelle. Tienmi le mani, prendine tutta la dolcezza, toglimi tutto, sono tanto felice di morire, ma tu ma tu… Tremo, mi guardo intorno, non vieni ancora, l’acqua scorreva…” (D. Campana – S. Aleramo, Lettere, pp. 88-89. Appunto senza data).
Nel gennaio del 1918 davanti al cancello del manicomio di San Salvi il “viaggio delle rose” tra Dino e Sibilla si interrompe.
Campana non ne uscirà più: morì nel 1932 a quarantasette anni “per un’infezione di setticemia” a seguito di un’epidemia o a causa di un’infezione- suppone il fratello Manlio- procuratasi nello scavalcare un filo spianato.
Ma la loro storia è oggi nella letteratura, nel “cielo fatto solo d’amore”.
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