Letteratura
Calabresi: Credevo che l’adrenalina fosse tutto, la mia vita è raccontare storie
Rincorro Mario Calabresi da parecchio tempo, la sua agenda è fitta di impegni, probabilmente è più impegnato ora di quando dirigeva due dei più importanti quotidiani italiani, la Stampa e Repubblica. Si tratta però di impegni diversi, come lui stesso spiega nel racconto che andrete a leggere. Ci facciamo però una promessa reciproca: aspettiamo, rimandiamo, ma, quando si potrà, dovremo conoscerci e vederci di persona. Promessa mantenuta. Ci troviamo a Milano, presso la sede di Chora Media, la nuova podcast company italiana, come lui la definisce, fondata insieme ad alcuni soci e da lui stesso diretta.
Una piacevole chiacchierata, durata poco meno di un’ora, con una breve interruzione per una sua diretta a Radio24 nella trasmissione “Uno, Nessuno, Cento Milan” di Alessandro Milan con Leonardo Manera.
Il caso ha voluto che l’incontro avvenisse dieci giorni prima della pubblicazione del suo nuovo libro, “Una volta sola”, in uscita oggi e di cui potrete leggere un breve assaggio nell’intervista che segue.
Quando e come hai scelto di diventare giornalista?
Sono diventato giornalista a causa dei processi, in particolare del processo per la morte di mio padre, il tutto è iniziato in corrispondenza con il mio primo anno di università. Mio padre è stato ucciso quando avevo due anni e mezzo, i processi sono iniziati quando ne avevo diciannove. A quell’epoca mi sono iscritto a legge con l’idea di fare il magistrato o l’avvocato, però dopo il primo anno di università, dove passavo anche molto tempo al palazzo di giustizia, mi sono reso conto che il luogo era molto cupo e il pensiero di passarci la vita non mi allettava e ho deciso di lasciare la facoltà di legge dopo un anno e mi sono chiesto cosa fare. Mi sono fatto questa domanda: cos’è la cosa che ti piace di più? Parlare con le persone, interessarmi delle cose che accadono e leggere i giornali. Mi è sempre piaciuto leggere i giornali, ero l’unico che arrivava a scuola già al primo anno delle superiori con il giornale. Mi piaceva tanto storia, era la mia materia preferita al liceo, mi sono così iscritto al corso di storia con un indirizzo in storia contemporanea, pensando però di non fare lo storico ma il giornalista, considerando che il giornalista è un po’ lo storico del presente.
In entrambe le due testate nazionali per le quali hai lavorato hai contribuito alla trasformazione del giornalismo cartaceo per arrivare fino a nuove forme di giornalismo digitale. Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato, anche nel far accettare alcune tue idee?
Prima di diventare direttore ho fatto il corrispondente negli Stati Uniti, ci sono stato per tre anni, in questo lungo periodo ho viaggiato in lungo e in largo l’America, seguendo anche la campagna elettorale che poi avrebbe eletto Barak Obama. Sono stato in 36 stati americani su 50 in un anno e mezzo e in ogni posto sono andato a visitare il giornale locale sia che fosse importante come il Washington Post o il Los Angeles Time sia il piccolo giornale di provincia e ho visto in anticipo, parliamo del 2008, quello che poi sarebbe successo in Italia, cioè il crollo verticale delle copie di carta, il passaggio al digitale, la difficoltà di tenere in piedi i conti con il digitale che era meno remunerativo. Sono tornato con la convinzione molto forte che bisognava accelerare il cambiamento in Italia, dove invece ho trovato l’illusione che da noi non sarebbe successo, mentre per me era chiarissimo il contrario e ho fatto l’integrazione a La Stampa, che è stato il primo giornale ad integrare carta e digitale, il tutto non senza difficoltà. La più grande è stata con gli editori, convincerli ad investire in maniera importante sul digitale per salvarsi e con i miei colleghi giornalisti, cercando di convincerli che nel nostro mestiere il centro del mondo non era la carta. Se dicevo ad un collega di scrivere un pezzo per il sito questo era considerato come una diminuzione. Ancora oggi la carta ha una forte fascinazione, eppure i numeri sono in picchiata. Oggi Repubblica fa circa 4 milioni di lettori sul sito e poche decine di migliaia sulla carta, ma oramai la carta non ha più nessuna centralità, il problema è che il modello economico dei giornali, continua ad essere incentrato sulla carta. Credo che lo stato dei giornali italiani in difficoltà sia dovuto a due conservatorismi che si sono sommati.
Tutti i giornalisti che ho intervistato per GliStatiGenerali hanno in comune l’incontro professionale con Montanelli. Cosa ricordi di quell’esperienza?
Ho conosciuto Montanelli ai tempi del processo, lui aveva preso le difese di mio padre, era stato sempre cortese con me e con mia madre, sono andato a trovarlo alcune volte dicendogli che avrei voluto fare il giornalista, mi aveva offerto di andare a lavorare con lui, ma io volevo studiare, non volevo fare il giornalista prima di aver completato gli studi all’università. L’insegnamento che mi trasmise fu che il giornalismo deve avere un linguaggio comprensibile a tutti. Mi ricordo proprio che stavamo camminando ai Bastioni di Porta Volta e mi disse: “Il presidente degli Stati Uniti, che sia anche Kennedy, non può diventare John Kennedy ha detto… Ma il Presidente degli Stati Uniti Kennedy ha detto, perchè potrebbe anche esserci una sola persona che non sa che Kennedy è il Presidente degli Stati Uniti”. Ovviamente questa frase è estremizzata, ma i giornali non possono essere auto referenziali e parlare ad un piccolo gruppo di persone devono avere la sfida di parlare ed essere comprensibili a tutti e se ci pensiamo bene la rete si preoccupa, la rete è larga e comprensibile da tutti e questo ancora di più ha accentuato la visione che la carta sia elitaria. Poi partecipai con alcuni articoli alla sua avventura alla “Voce”, era un uomo molto asciutto, mangiava pochissimo. La figura di Montanelli oggi è molto discussa, penso anche alla statua imbrattata a Porta Venezia. È impossibile per noi leggere con gli occhi del presente il passato, certo oggi l’idea che uno prenda una ragazzina africana, ci faccia dei figli e la consideri quasi come un oggetto, è una cosa aberrante, il problema è che nella mentalità di allora non lo era, è molto complicato.
Hai seguito la campagna delle elezioni americane che hanno portato all’elezione di Barack Obama, un sogno per molti giornalisti immagino, cosa provavi mentre eri lì?
È stata la più bella esperienza giornalistica della mia vita, ho viaggiato in America in lungo e in largo per un anno intero e ho conosciuto un’America che non avevo visto, sono stato tra le tribù indiane nel nord degli Stai Uniti, ho viaggiato in treno da Chicago a New Orleans, ho visto un’America che non è quella d New York e San Francisco, Ma un posto diverso, dove la gente si stupisce perché hai il passaporto, un’America che è molto più dolente, meno luccicante, dove gli studenti sono oberati dai debiti delle rette universitarie, dove le parole hope speranza e change cambiamento di Obama erano viste come una reale speranza. È stata un’occasione incredibile, un posto strepitoso dal punto di vista dei paesaggi, l’Arizona, il Montana, le Hawaii, dove sono andato a cercare i compagni di classe di Obama, ho intervistato sua sorella, ho avuto la fortuna per l’ultimo treno di avere un giornale che mi ha permesso di viaggiare tutti i giorni. Avevo dovuto fare un conto per le tasse di quanti giorni avevo passato a New York e quanti giorni fuori. Nel 2008 ho fatto 104 voli aerei all’interno degli Stati Uniti, circa 2 voli alla settimana, ho visto come il meccanismo elettorale americano coinvolge veramente il Paese, c’è tanto astensionismo c’è anche rispetto a noi tantissima mobilitazione di gente che fa la campagna elettorale, va per le strade, attacca i manifesti dei candidati sulle porte, nei cortili di casa nei parcheggi delle auto, nei negozi è stata un’esperienza giornalisticamente straordinaria. Non so se mi capiterà ancora qualcosa di così intenso, l’ho fatto e sono felice di questo.
C’è qualcosa che rimpiangi dei tuoi anni in redazione?
Quando sono uscito da Repubblica in maniera brusca per me è stato doloroso, pensavo che quello che mi sarebbe mancato di più fosse l’adrenalina delle notizie, l’adrenalina di rifare il giornale, lo tsunami, le guerre, gli attentati, il colpo di stato in Turchia, tutto questo, il momento di adrenalina pura pensavo, mi mancherà tantissimo. Invece no, ho capito che quello che a me sta a cuore è raccontare le storie, incontrare persone, questo è quello che mi fa sentirei appagato, più felice, più soddisfatto e ho trovato il modo di continuare a farlo e mi fa felice, lo faccio con i podcast e con la news letter, quindi alla fine non mi manca. Quello che invece mi manca della redazione è lo spirito di squadra e di confronto, ho avuto delle persone con cui ho lavorato benissimo, con cui ho avuto continui scambi, ecco quella è la cosa che mi manca, non mi mancano gli orari e tutto il resto, oggi gestisco la mia vita e la sera esiste, la domenica se voglio esiste, non ho obblighi, se voglio fare una settimana al mare e non guardare il telefono lo posso fare, prima era complicato.
Torneresti mai a dirigere un quotidiano? Magari l’edizione web?
No, ti dico di no per un motivo, io oggi mi sono focalizzato non più sul flusso, ma sulla scelta di alcune cose, tutto quello che faccio le newsletter, i podcast, i libri, sono tutti, grandi o piccoli che siano, dei progetti che scelgo di fare, sui quali mi focalizzo e su cui lavoro e approfondisco. Il giornale è flusso, tutti i giorni tu devi cercare di dare un ordine, di scegliere nel fiume dell’attualità, è una cosa meravigliosa che ho fatto per 24 anni, in cui ho vissuto in una maniera totalizzante perché ho fatto il giornalista senza sacrificare un secondo, lo facevo fino a mezzanotte, all’una di notte. Quando ero all’Ansa stavo dietro ai politici fino alle tre del mattino e alle otto ero di nuovo in pista, alle sette leggevo i giornali, ho trascorso quasi 25 anni totalmente immerso in questo, senza mai tirarmi indietro, oggi invece ho scelto un altro passo, un altro modo di vedere le cose, quindi adesso non tornerei indietro. Dirigere un giornale è bello, ne ho diretti due, una bellissima esperienza ma rifarla no, non rappresenta più quello che sono io adesso. A me piace ora immaginare dei progetti di lunghissimo periodo. Tra due settimane (oggi per chi legge) uscirà un mio nuovo libro, però sto già lavorando da un po’ al libro che verrà tra un anno e mi piace un sacco l’idea di avere tempo, ci sono storie di questo libro che dovrò andare a raccogliere, due negli Stati Uniti, per cui so fin d’ora che a marzo dovrò andarci per incontrare quella persona e raccogliere la sua storia, è un altro passo, non è più il passo della cronaca.
In “Altre Storie” riporti la tua definizione di CURIOSITÀ “La curiosità è il motore dell’esistenza, il radar che ci fa captare i colori e la chiave per aprire le relazioni con gli altri esseri umani.” Il digitale, la moltitudine di canali con i quali informarsi, in questo ci potrebbero aiutare e invece, spesso accade, il contrario. Qual è secondo te l’ingrediente che va abbinato alla curiosità?
Il dato fondamentale della curiosità è quello di essere elastici. La curiosità deve portare a confrontarti anche con cose che non ti aspetti. Per me una delle più grandi soddisfazioni dal punto di vista giornalistico è partire per cercare una storia pensando che sia di un colore e poi invece scopri che è di un altro, pensi che sia in un modo e invece è in un altro, penso che questo sia assolutamente appassionante. Quando la realtà ti stupisce, è molto più bello. Da questo punto di vista l’ algoritmo dei social ti porta ad ascoltare e a sentire sempre cose che ti somigliano e a dare risposte semplici a cose che invece sono complesse e piene di sfumature. Credo che la curiosità sia apprezzare le sfumature. Una volta in una scuola di giornalismo dissi ad una ragazza: non è che voi potete pensare che è tutto bianco o nero, ci sono un sacco di possibilità. Lei: “cosa dovremmo dire quindi navigare nel grigio?” “No risposi, ti do una notizia, ci sono i colori”. Ci sono tante sfumature nella vita, invece oggi si tende a far diventare tutto binario, per me la curiosità è la rivolta contro l’idea che tutto sia classificabile nel bianco o nel nero, esistono un sacco di opzioni molto più affascinanti e interessanti.
Perché hai scelta la formula della newsletter e non un blog normale?
La newsletter ha una scadenza, ha un giorno e una data precisa, la mia newsletter “altre storie” ha più di 60 mila iscritti, con un tasso di apertura il venerdì mattina, tra le sette e le nove, del 70%. Vuol dire che ci sono 40mila persone che la leggono tra le sette e le nove del mattino del venerdì. Quando incontro la gente mi confida di aspettare la newsletter: “non vedo l’ora che arrivi il venerdì mattina per riceverla e leggerla durante la colazione”. La newsletter viene a casa tua, entra nella tua casella di posta, bussa, è lì, tu gli apri, non è un blog dove vai quando vuoi, è una cosa che ha una scadenza, una ritualità, a me piace la ritualità della newsletter.
A 2 anni dalla fondazione di Chora il successo è innegabile. Come avete maturato l’idea di acquisire Will Media e quali sono i prossimi obiettivi che vorreste raggiungere?
La cosa fondamentale è che con Chora ci siamo concentrati su una cosa sola, l’audio sui podcast, un modo fantastico di raccontare le storie e anche di fare approfondimento e informazione. Amo tantissimo il long form journalism, facevo questa cosa a Repubblica ad esempio Super8, otto pagine su un unico tema, notavo però che la gente faticava a leggerlo, perché troppo lungo, si tratta circa di mezz’ora di lettura. Se io faccio un pezzo di otto pagine, pochi lo leggeranno, ma se faccio un podcast di un racconto, di un approfondimento che dura mezz’ora, molta gente mentre cammina, corre, va in auto, riordina la casa, probabilmente lo ascolta, da questo punto di vista è uno splendido modo per fare informazione, intrattenimento, narrazione e racconto. Abbiamo deciso di prendere Will perché il matrimonio più forte che c’è è quello tra i podcast e i social, soprattutto Instagram, un campo dove Will è la realtà più forte che ci sia in Italia, quindi è stato un buon modo per mettere insieme due realtà complementari. Uno fa il contenuto audio e l’altro fa la diffusione sulle piattaforme social. Facciamo cose complementari con un pubblico che in parte è lo stesso. Il pubblico di Will va circa dai 20 ai 40 anni, quello di Chora è un po’ più grande, diciamo compreso tra i 25 e i 50 e anche oltre, un pubblico educato, colto, di diplomati e laureati, vive nelle grandi città o nelle città universitarie, abbiamo messo insieme quindi un gruppo editoriale che però ha ben presente chi è il suo interlocutore e che parla ad una parte dinamica e giovane della società.
Perché secondo te il podcast ha avuto questa esplosione?
Quando sono uscito da Repubblica, mi sono preso un anno di studio, ho scritto un libro, ma sono andato anche molto in giro, sono andato in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti, a studiare cosa stava accadendo e tutti, ovunque mi recassi, anche nelle Università Stanford, Oxford, mi parlavano di podcast, chiunque, una cosa impressionante, in Italia era quasi sconosciuto. Lì mi dicevano che era invece il futuro perché tutta la battaglia per la nostra attenzione, è una battaglia per l’uso degli occhi di ognuno di noi. Che tu guardi una partita di calcio su Dazn o una serie televisiva su Netflix, leggi una mail, stai su whatsapp, su Instagram, su Twitter, ti guardi le foto, leggi un giornale, è tutta attenzione per gli occhi. Qui il mercato è pieno zeppo di soggetti, completamente diversi, che si rincorrono per avere l’attenzione dei nostri occhi per alcuni secondi. C’è un sacco di tempo poi, nell’arco di una giornata, in cui tu non puoi usare gli occhi, perché magari stai guidando, stai correndo, stai tagliando la verdura, stai facendo la spesa, insomma fai dei lavori meccanici hai tempo e quindi puoi ascoltare. Lì non c’è concorrenza, c’è solo la radio, ma la radio è flusso, se ci pensi bene quando tu arrivi ad ascoltarla, senti quello che c’è in quel preciso momento, il podcast invece è un contenuto audio ma che risponde ad un criterio e ad una necessità fondamentale di questo tempo, l’idea dell’on demand. Oggi nemmeno un bambino chiede di vedere i cartoni animati all’ora in cui vengono trasmessi, vuole farlo quando decide lui e quando i genitori glielo permettono, le serie tv oramai le guardiamo on demand, ognuno mangia quando vuole, fa la spesa quando vuole, quindi vuole ascoltare le cose che gli interessano quando vuole e il podcast è la risposta a questo, è nel telefono non ha bisogno di altri supporti, quindi la cosa era matura perché accadesse anche in Italia. Sono andato poi a parlare da noi con le grandi piattaforme, con Spotify, con Amazon per chiedere il perché da noi il podcast non funzionasse e loro per tutta risposta mi hanno detto che in Italia non c’è offerta. Quindi non è che siccome non c’è domanda il mercato non esiste in Italia o è piccolo, forse è perché non c’è offerta, quindi con i miei soci, Guido Brera, Roberto Zanco e Mario Gianani abbiamo costruito una cosa che facesse tanta offerta, tante cose diverse, una cosa che allargasse il mercato dei podcast e questo mercato, anche grazie a noi, è completamente decollato. Per fare il primo milione di ascolti ci abbiamo messo 6 mesi, il secondo milione di ascolti 3 mesi, oggi facciamo un milione di ascolti alla settimana, tutto questo in soli due anni.
Il branded content sarà il futuro del giornalismo?
No non è il futuro del giornalismo, è il futuro delle narrazioni delle aziende, è un’altra cosa. Noi abbiamo tre divisioni all’interno di Chora, una che si dedica ai progetti editoriali, una alle news e una che si occupa di brand content, sono separate, ognuno fa il suo mestiere, chi fa informazione non fa branded content. Lavoriamo molto con il branded content perché siamo convinti che le aziende, le società, i marchi ma anche i musei, gli ospedali ecc, abbiano all’interno tantissime storie, il nostro lavoro è quello di aiutarli a far emergere le storie, il loro dna, le visioni e i racconti che hanno dentro, la sfida è farlo in un modo di narrazione professionale, non in un modo pubblicitario.
Stai lavorando su un nuovo libro?
Il nuovo libro (esce martedì 25, oggi per chi legge) che si intitola “Una volta sola” affronta un tema: l’importanza della scelta, la differenza nella nostra vita la fanno i momenti in cui abbiamo il coraggio di scegliere una strada. C’è una frase che mi ha molto colpito: “la differenza nella vita sta tra agire e reagire”, noi spesso viviamo, rispondendo ai mille stimoli che ci arrivano da fuori, agendo perché gli altri fanno qualcosa, noi in quella caso stiamo reagendo. L’importante invece è agire per quello che si ha dentro, per quello che si pensa. Ho fatto quindi un libro di storie di persone che, anche nei momenti difficili della loro vita, hanno avuto il coraggio di fare una scelta. C’è la storia di un uomo che nel giorno in cui vengono chiuse le RSA per il diffondersi del Covid, nel giro di un quarto d’ora decide di farsi ricoverare per stare accanto alla moglie malata di alzheimer ricoverata nella stessa struttura, sa che non uscirà più e non è più uscito per due anni. Un’altra storia di una donna, moglie di un boss della camorra napoletana, che durante la pandemia mentre, il marito è in carcere, decide di scappare una mattina all’alba, perché non vuole che i figli diventino dei delinquenti come il padre, scappa, vive nascosta al nord, cercando di ricostruire una vita nuova per sé e per i suoi figli. Ho la storia del primo uomo che ha fatto il testimone di mafia in Italia, per l’omicidio Livatino, che mi racconta ogni giorno della sua vita da quando ha fatto quella scelta, ha dovuto cambiare identità, è stato abbandonato dalla moglie, ha pagato un prezzo alto, ma è rimasto fedele a quella scelta. Nel libro ci sono 14 storie che mi stanno a cuore, di persone che hanno fatto scelte coraggiose, perché scegliere è quello che definisce le nostre esistenze. Mi è piaciuto fare emergere il fatto che noi scegliamo anche di istinto, ma su quello che è stata la nostra costruzione, perché la vita non è mai l’attimo presente, la vita è la somma delle esperienze che abbiamo avuto e delle persone che abbiamo incontrato. L’idea che una persona faccia tutto da sola, è una falsa idea, noi siamo la somma dei nostri amici, dei nostri insegnanti, dei nostri genitori e ci portiamo dentro un pezzo di ognuno di loro e questo forma chi siamo e forma anche il modo in cui scegliamo di essere e di fare.
Parliamo delle elezioni, due giorni prima delle votazioni hai pubblicato la storia di Natascia, una signora che fra Piemonte e Liguria alterna l’attività di animatrice per bambini a quella di volantinaggio. Ha fatto volantinaggio per il PD e nel mese precedente le elezioni ti sei fatto raccontare da lei come reagiva la gente. Alla fine lo spaccato riportato da Natascia, in alcuni paesi fra Liguria e Piemonte, si è confermato essere l’umore dell’Italia intera. Cosa accadrà adesso?
C’è tanto malessere in Italia, che nasce dalla sensazione di non avere futuro, la frustrazione di molti giovani che non trovano lavoro, esistono due e anche tre Italie, ci sono Milano, Verona, Bologna, luoghi della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia, dove c’è energia, c’è crescita e ci sono invece altri pezzi d’Italia che sono fermi, dove i ragazzi non riescono ad avere una visione del loro futuro e dove i loro genitori vivono il dolore e la frustrazione per non riuscire nemmeno ad immaginare che cosa potranno fare i loro figli, questa è una cosa che ti annichilisce. Aggiungi a questo anche le cose congiunturali, la pandemia, la guerra, la crisi energetica, i costi che salgono un’inflazione alta a cui non eravamo più abituati, questo ha fatto sì che ci sia stata una mobilità dell’elettorato incredibile in questi anni, in dieci anni sopra a percentuali del 30% ci sono andati Renzi, che poi è crollato, Salvini, che poi è crollato, i 5Stelle, crollati pure loro, oggi la Meloni avrà una luna di miele, nella quale dovrà cercare di fare qualcosa per dare risposte al malessere, ma anche lei non si deve fare illusioni in un tempo non troppo lungo, anche lei deluderà. Ci sono dei problemi che sono molto più grandi dei singoli, delle persone.
Hai ancora un sogno nel cassetto irrealizzato?
Ti dico tre cose: ho un sacco di libri da leggere, vorrei leggere tanti libri che amo e che da tanti anni stanno nella mia libreria, mi tengono compagnia e rappresentano per me una promessa. Ho tanti Paesi che sogno di visitare, voglio viaggiare, voglio conoscere le persone, voglio stare nei luoghi, mi piacerebbe avere la possibilità di prendermi il tempo, magari tre mesi, per vivere in un posto dove non avrei mai pensato di vivere, ad esempio a Tokyo. Mi piacerebbe vivere in Giappone per tre mesi, spero vivamente di riuscire a ritagliarmi un periodo per fare veramente qualcosa di completamente diverso.
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