Letteratura

Buzzati, la disperazione di “un amore”

18 Agosto 2021

“Un amore”, nella narrativa di Buzzati, rappresenta una magica e voluta rivoluzione della sua magnifica letteratura, perché porta l’autore in una cruda realtà, non più metafisica, astratta, immaginaria che ritroviamo ne “ Il deserto dei Tartari”, ma effettiva, palpitante, veritiera: le conseguenze non calcolate di un amore arrivato per caso.
Il protagonista del romanzo è un cinquantenne, Antonio Dorigo, che si innamora perdutamente di una prostituita, Laide di appena 20 anni o forse minorenne ,sino a diventarne morbosamente geloso ed a subire tutte le negative ed irreversibili declinazioni dell’amore: la possessione, una caduta verticale della propria personalità che gli fa perdere anche il senso del ridicolo. Antonio diventerà il cavalier servente di Laide, che lo sfrutterà anche sul piano economico.
Laide è una malattia non naturalmente subita negli anni dovuti, ma in vecchiaia quando il corpo di Antonio patisce la corrosione irriducibile del tempo. Di questa crudele consapevolezza ne ha contezza il protagonista, l’intellettuale Antonio Dorigo, tra l’altro scapolo e convivente con la madre.
Si dice che vi sia anche una componente autobiografica e che realmente Buzzati si fosse innamorato di una giovane, perdendo il suo ordine militare, meticoloso: entrato nell’universo oscuro e misterioso di Laide, ha trovato piacere nell’anarchia e nel caos del suo comportamento ed è divenuto schiavo d’amore.
Secondo Eugenio Montale, con questo romanzo Buzzati ci propone “una dissezione anatomistica del sentimento d’amore che non può definirsi patologico, perché è stato provato da tutti gli innamorati: una furiosa passione di un uomo maturo per una giovanissima meretrice.Buzzati lo affronta con la chiaroveggenza di un clinico, ne descrive la diagnosi e conclude la prognosi: totale sottomissione al male.
Laide per Antonio Dorigo è una ventata di freschezza, una gioventù non vissuta, una scoperta della sessualità lussuriosa, la fine di un incubo, l’inizio di un male orribilmente desiderato, perché è il solo che possa introdurre nel cratere della vita un essere che ne era stato sempre escluso. Con questo innamoramento Antonio rompe la dura crosta dell’ipocrisia, perché quella sofferenza può capitare a tutti noi
 “(Montale, Corriere della Sera 18 aprile 1963).
Antonio percorre tutti gli stadi della disperazione d’amore, accetta anche di condividere Laide con altri uomini (Marcello suo presunto cugino), anzi l’accompagna a convegni ed appuntamenti, aspettandola con il suo cagnolino in braccio. Pur cosciente delle sue bugie le conferisce ogni scusa e perdono, “perché senza di lei la vita non ha alcun senso e valore”.
Aveva con Laide constatato l’incredibile potenza dell’amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all’altro del mondo.
Laide incarnava nel modo più perfetto ed intenso il mondo avventuroso e proibito. Come se ci fosse stata una predestinazione.
Come quando , senza alcun particolare sintomo, si ha la sensazione di stare per ammalarsi, ma non si sa di che cosa, né il motivo.

Ora si accorge che, per quanto egli cerchi di ribellarsi, il pensiero di lei lo perseguita in ogni istante millimetrico della giornata, ogni cosa, persona, situazione, lettura , ricordo riconduce fulmineamente a lei attraverso tortuosi e maligni riferimenti. Una specie di arsura interna in corrispondenza della bocca dello stomaco, su su verso lo sterno, una tensione immobile e  dolorosa di tutto l’essere, come quando da un momento all’altro può accadere una cosa spaventosa e si resta inarcati allo spasimo, l’angoscia, l’umiliazione, il disperato bisogno, la debolezza, il desiderio, la malattia mescolati tutti insieme a formare un blocco, un patimento totale e compatto, questo soffriva in modo insopprimibile Antonio.
L’amara consapevolezza consisteva nel fatto che ogni consolazione, aiuto, pietà potevano venire unicamente da lei.
In ogni più recondito meandro del cervello, in ogni riposta tana e sotterraneo dove lui tentava di nascondersi per avere un momento di respiro, là in fondo trovava sempre lei.
E tutto quello che non era lei, che non riguardava lei, tutto il resto del mondo, il lavoro, l’arte, la famiglia, gli amici, le montagne, le altre donne, le migliaia migliaia di altre donne bellissime, anche molto più sensuali di lei, non contavano più, andassero pure alla totale malora.
A quella sofferenza insopportabile soltanto lei, Laide poteva portare rimedio e non occorreva pure che si lasciasse possedere, o fosse specialmente gentile, bastava che fosse con lui, al suo fianco e gli parlasse e magari controvoglia fosse costretta a tener conto che lui almeno per alcuni minuti esisteva, solo in queste pause brevissime che capitavano di quando in quando è duravano un soffio: soltanto allora Antonio poteva trovare pace.

Quel fuoco all’altezza dello sterno cessava, Antonio tornava ad essere se stesso, i suoi interessi di vita e di lavoro riprendevano ad avere un senso, i mondi poetici, a cui aveva dedicato la vita, ricominciavano a risplendere degli antichi incanti ed un sollievo indescrivibile si spandeva in tutto il suo essere.
Sapeva è vero che tra poco lei se ne sarebbe andata, quasi subito lo avrebbe di nuovo uncinato l’infelicità, sapeva che dopo sarebbe stato ancora peggio, non importa, il senso di liberazione era così totale e meraviglioso che per il momento non pensavo ad altro.
Gli bastava che Laide diventasse un poco sua, vivesse un poco per lui, l’idea di poter entrare come personaggio nell’esistenza di quella ragazzina e di diventare per lei una cosa importante, anche se non la più importante, questa era la sua ossessione.
Non era un’infatuazione carnale, era una stregoneria più profonda, come se un nuovo destino, cui non avesse mai pensato, chiamasse lui, Antonio trascinandolo progressivamente, con violenza irresistibile, verso un domani ignoto e tenebroso. E la situazione considerata da qualsiasi parte non lasciava intravedere via d’uscita ;non potevano attenderlo che rabbia ,umiliazione, gelosia ed affanni a non finire”.

Da dove veniva infatti il tormento, l’inquietudine, l’angoscia, l’incapacità di lavorare, di mangiare, di dormire?
Antonio non era più lui, bensì un essere ormai schiavo di lei.
Laide non lo amava, lo utilizzava solo per i suoi bisogni ora economici, ora per le incombenze quotidiane, ora per pagarsi l’affitto.
Ed Antonio obbediva come un cagnolino addomesticato.
Forse il resto della vita, il lavoro, la famiglia, la mamma, gli amici, la città con tutte le sue quotidiane distrazioni si aspettava di riassaporare il gusto dei giorni di una volta, quella complessiva tranquillità banale, di sicurezza quotidiana , di borghese appagamento. Voleva disperatamente liberarsi di Lei, tornare indietro: ma si accorse di essere solo.
Nessuno era in condizione di aiutarlo e neppure di capirlo, di compatirlo neanche. Il lavoro, la famiglia, gli amici, le serate in compagnia non gli dicevano più niente, intorno a lui tutto era vuoto e senza senso. Non si era liberato, ecco la questione, non si era affatto liberato. Il pensiero di lei, tormento, totale infelicità, lo possedeva come prima.
Ma Laide era diversa da tutte le altre.
In Laide viveva meravigliosamente la città dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa, insolente. Nella degradazione degli animi delle cose, fra suoni e luci equivoci, all’ ombra tetra dei condomini, fra le muraglie di cemento e di gesso nella frenetica desolazione , una specie di fiore, Laide.
Laide era l’amore. Perché al pensiero di non poterla più vedere, un’angoscia senza limiti si impadroniva di lui. No, qualsiasi cosa pur di evitare questa condanna. Che cosa avrebbe fatto senza di lei? Come avrebbe potuto continuare a vivere? Lei era il mondo stesso, la vita, il sangue, la luce del sole, la gloria, la ricchezza, l’appagamento dei sogni.
L’amore è una maledizione che piomba addosso e resisterle è impossibile”.
Dirà Buzzati questo romanzo non poteva far a meno di scriverlo. È una specie di confessione autobiografica, necessaria per superare un devastante tormento d’amore (Corriere d’informazione domenica 14/4/1963).

Gaetano Afeltra, suo capo redattore al “Corriere della sera”, ove Buzzati è stato giornalista e firma principe per tutta la vita, ci rammenta che in quel periodo Dino era un altro e neppure le montagne, le amate Dolomiti lo distraevano. Sarà Almerina con la quale si sposerà a far dimenticare a Buzzati, questa infatuazione.
(Afeltra, Corriere della Sera del 10/4/1987).
Sosterrà Giuliano Gramigna che Buzzati, con questo racconto anche un po’ autobiografico, ci ha regalato un libro vivo (Corriere d’informazione del 19-20 aprile 1963).
Ci ha fatto scoprire senza ipocrisie e falsità piccolo- borghesi, il vero sentimento dell’amore anche nelle sue ricadute irrazionali, incomprensibili, inusitate.
Come scriverà Montanelli sul “ Corriere della Sera”,

(L ‘ultimo Buzzati sabato 15/11/1969) “Buzzati con “Un amore” rimane sempre artista e poeta”.
E per questo ci è piaciuto moltissimo.

 

 

 

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