Ciclismo
Buffalo Bill e le cipolle crude
(Ovvero, il ciclismo a Bologna cent’anni fa, o giù di lì).
A Bologna l’ippodromo Zappoli, con l’accento sulla ò, oggi non c’è più. Venne distrutto nel 1928 e al suo posto è venuto su un quartiere di case popolari e abitazioni borghesi.
L’impianto era stato costruito nel 1888 alla periferia ovest, presso porta San Felice. Era rotondo “come una bondiola” e provvisto di una capiente tribuna con tettoia. Ci correvano preferibilmente le corse dei cavalli al trotto.
Due anni dopo l’inaugurazione, nel 1890, vi si esibì il colonnello William Frederick Cody, meglio noto come Buffalo Bill: era lo spettacolo che andava portando in giro per l’Europa e l’Italia. Il circo, contrariamente a quanto ha sempre sostenuto un noto cantautore, non si chiamava “Pace e Bene”, ma Wild West Show-Rocky Mountain and Praire Exhibiition.
Allo Zappoli, che prendeva il nome da un’antica famiglia bolognese, vi si organizzavano gare di tiro al piccione o al piattello e, oltre ai cavalli, ci avevano fatto correre pure gli struzzi. Ma anche le biciclette.
Il pomeriggio di giovedì, 13 maggio 1909 – tra due giorni sono centodieci anni fa – fu l’ippodromo bolognese il primo traguardo della prima tappa del primo Giro d’Italia. Erano passate da poco le 5 del pomeriggio e un manipolo di assatanati povericristi partiti alle 2.57 della notte dal Rondò di Loreto, a Milano, vi piombarono per disputarsi la vittoria di tappa.
Per arrivare a Bologna, da Milano appunto, non avevano peraltro scelto la via più breve: l’avevano presa molto alla larga. Bergamo, Brescia, Desenzano, Verona, Padova, Rovigo, Ferrara e, finalmente, Bologna: 397 km. Da un’ora si era messo a piovere che dio la mandava. Molti dei cinquemila curiosi che si erano assiepati per assistere alla quella prima barbarica volata a pedali, si erano dileguati.
Quando i corridori entrarono nell’ippodromo, Luigi Ganna, dell’Atala, che guidava il gruppo, scivolò all’ingresso della curva; Rossignoli, della Bianchi, che gli era a ruota, fu costretto a fermarsi. Partì allora il romano Dario Beni, anche lui della Bianchi. E dopo in giro e mezzo di pista, sorprese tutti allo sprint, resistendo allo spunto veloce di Mario Pesce, della Peugeot, e di Carlo Galetti, della Legnano, e all’arrembante ritorno di Ganna. Quinto arrivò Louis Trousselier, su una Stucchi. Nessuno però mostrava di conoscere Beni: tutti aspettavano e inneggiavano a Ganna. Circondato e portato in trionfo, il vincitore si schermì e protestò: “Aho, io so’ Bbeni!”.
Andò molto peggio a Giovanni Gerbi. Vittima di un incidente meccanico già alla partenza, il povero “Diavolo Rosso” non dimenticò la strada ma arrivò lo stesso alle 23 e 35, sei ore e mezza dopo Beni, quando l’ippodromo era stato già chiuso e il traguardo spostato davanti alla trattoria del Chiù.
Da quel maggio del 1909 non erano passati molti anni da quando Giosue Carducci, esimio e crinito professore a Bologna, sacramentava contro “gli arrotini arrabbiati” che correvano in velocipede sui viali. Anche a un altro scrittore, l’erudito, fotografo, massone, bibliofilo, gastronomo, direttore della biblioteca dell’Archiginnasio, Olindo Guerrini, all’incirca contemporaneo del premio Nobel, dapprincipio, la bicicletta stava antipatica. Riteneva che “a Bologna […] il selciato non [fosse] igienico per le biciclette” in mano “per lo più [a] ragazzi che hanno marinato la scuola o la bottega, con la macchina a prestito o a nolo”. La bicicletta la temeva proprio. Del resto lui stesso ricordava che “giornali ci narrano tutti i giorni gli orrori ed i disastri cagionati dal ciclismo. E strano! Se un fiaccheraio mette sotto una generazione intera, appena lo dicono, se pur lo dicono: ma se un ciclista si scortica un dito o storpia un cane vagante, tutte le gazzette trombettano il funesto avvenimento che fa rabbrividire i babbi e le mamme. Hanno una rubrica apposta che s’intitola: Disgrazie del ciclismo.”
Multiforme letterato dai volti più disparati – anni prima di Pessoa aveva dato vita a eteronimi di un certo successo, da Lorenzo Stecchetti, studente bohémien, all’Argia Sbolenfi, zitella dagli isterici ardori – il buon Olindo divenne di lì a poco uno dei più ferventi sostenitori della pratica velocipedistica solo per amor filiale.
Un giorno, infatti, ricevendo con mal dissimulata preoccupazione le confessioni del figliolo che si era votato al nuovo sport, decise non di opporvisi né di dissuaderlo, ma di mettersi al suo stesso livello e… imparare ad andare in bicicletta. Lo fece di nascosto prendendo lezioni private, fino a quando al cospetto del figlio ignaro dichiarò di desiderare anche lui imparare a pedalare. Dal noleggiatore Pelloni, in piazza VIII Agosto, il padre Olindo venne messo in sella: “Il figlio prima ebbe paura e mi rincorse gridando: ‘Bada! Bada!’. Ma quando mi vide onorare la piazza di eleganti evoluzioni pedalate magistralmente, allora capi e rise. Ah, come ridemmo di gusto quella mattina!”.
Da quel giorno, padre e figlio a spinger sui pedali divennero inseparabili. E “la memoria di quegli esordi ci rallegra spesso nelle faticose salite per Firenze o nella monotona via per Venezia e sono memorie ancora recenti”.
Ma non solo, la militanza a pedali del Guerrini, indefesso promotore delle prime iniziative cicloturistiche per conto del neonato Touring Club Italiano, si spinse a proclamare che: “Ahimè, poeti e gobbi si nasce e non si diventa. La rachitide non e malattia che s’acquisti. Caso mai, si trasmette ai figli dai padri volontariamente
tardigradi e valetudinari. Mettetevelo in mente voi che vi guardate la lingua, vi tastate il polso, seccate il medico e ingrassate il farmacista. Andate in bicicletta coi figli e dopo un mese digerirete le cipolle crude.
Ve lo dico io”. Che sarebbe poi la traduzione italiana di quel che avrebbe detto in bolognese: “T’al degh mè!”.
Fonti
Claudio Gregori, Il romanzo di Baslot. Vita e imprese di Giovanni Rossignoli, Bolis Edizioni, 2019.
Olindo Guerrini, In sella, già Come diventai ciclista, in In bicicletta, Giannotta 1901, e ora in Otto racconti in bicicletta a cura di Giovanni Casalegno, con illustrazioni di Riccardo Guasco, Bolis Edizioni, 2017.
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