Letteratura

Beppe Fenoglio. Perché non abbiamo ancora iniziato a fare i conti con la storia

27 Febbraio 2022

Le celebrazioni pubbliche per le ricorrenze sono un termometro per misurare la sensibilità pubblica al tempo presente.

Sicuramente c’è molta voglia di confrontarsi in Italia sull’eredità o sullo «scandalo Pier Paolo Pasolini» in occasione del centenario della sua nascita (il prossimo 5 marzo). Encomiabile. Ce n’è meno, a mio avviso, nonostante non passi giorno che qualcuno non costruisca un’opportunità, un percorso, una pagina sul web o sui giornali di carta, per ricordare e invitare a riflettere su Beppe Fenoglio.

Ricordare non è un percorso lineare.

La memoria è selezione – ovvero direbbe Aleida Assmann, un misto di rimemorazione e oblio, ma anche un modo di accantonare un ricordo, sapendo che si può sempre riaprire un cassetto e trovare una risorsa (che sia un libro, un oggetto un frammento,…) capace di riattivare un meccanismo di rimemorazione.

Quindi il problema non è costituito dall’alternativa secca /ricordare/dimenticare, ma dà che cosa partire per riattivare in forma partecipata e dunque attiva un atto di memoria. Ovvero di fare della memoria non un atto dovuto, ma un percorso di costruzione di consapevolezza pubblica.

Così per quanto enorme sia la vicenda pubblica Pier Paolo Pasolini, sovraccaricata non solo del suo agire in vita, ma anche della scena della morte, è significativo che una pista diversa abbia seguito finora la riflessione intorno a Beppe Fenoglio (peruna primaguida è utile leggere il breve ritratto proposto da Giulia Mozzato).

Ripeto non è una questione di «dimenticanza» ma appunto il problema è cercare, senza scaldalo, di capire in che cosa consista questa coerenza e se essa, testimoni, non di un percorso di recupero di qualcosa che ci siamo persi, bensì della riproposizione del meccanismo che diciamo di voler superare. Ovvero quello del fare i conti con l’imbarazzo che ci costringono alcune date di memoria. Per cui l’esito, appunto per non incorrere nel l’imbarazzo, è semplicemente quello di renderle non problematiche. Celebrarle, anzi caricarle di solennità, ma sostanzialmente eluderle.

Non entro nella questione Pasolini che vorrei ridurre a questa partita che credo ci riguardi al tempo presente. Non riguarda il suo privato, (su cui, invece, si concentrano da anni attenzioni ogni qual volta si discuta della sua figura pubblica, a dimostrazione che quella dimensione, checché se ne dica fa ancora scandalo). Riguarda, invece, la sua presenza pubblica.

Pasolini ha avuto sempre un luogo dove scrivere e comunicare. E quel luogo spesso lo ha usato per affermare concetti che andavano “contropelo” rispetto al gusto del lettore medio delle testate che lo ospitavano come collaboratore.

Se c’è uno scandalo Pasolini esso aveva valore e senso su due piani:

  • Il primo era riferito a ciò che scriveva Pasolini (per i temi, ma anche per lo stile).
  • Il secondo è in relazione al margine di autonomia che gli era garantita senza che per questo si profilasse una politica di scambio. In breve la libertà di scrittura di cui godeva.

C’è oggi nella stampa italiana d’opinione la stessa libertà? Oppure c’è oggi un luogo di carta o sul web che ha una sua linea editoriale, ma che è disposto ad accogliere non come ospite ma come opportunità una voce lontana o distonica dalla sua linea editoriale e a difenderla rispetto all’opinione di maggioranza dei suoi lettori? Ovvero a ritenere quella presenza non un’incursione, ma un arricchimento, un’opportunità di crescita?

La questione Fenoglio non è essenzialmente diversa e riguarda come la letteratura possa essere uno strumento o un’opportunità per costruire sensibilità pubblica. Ovvero: non per indottrinare o per «convincere» bensì per «crescere».

È stato Italo Calvino nel 1964 – ripubblicando Il sentiero dei nidi di ragno e accompagnando quella ristampa  con una introduzione che marca definitivamente quel testo a identificare in Una questione privata, il lungo racconto che Fenoglio lascia non finito a causa della sua morte precoce il testo che è capace di condensare e mettere in fila tutte le questioni che stanno al centro del vissuto del tempo della Resistenza.

Scrive Calvino nel passaggio concettualmente centrale di quella introduzione:

«Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata.

Una questione privata è un testo costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché».

Quel testo, però ha impiegato molto tempo per arrivare sul tavolo tra i libri da leggere per capire qualcosa della Resistenza che non fosse solo celebrazione, ma fosse storia, conflitti. In breve: vita.

Ha impiegato tempo perché prendere in carica quella vicenda a assumerla come un momento fondativo del nostro tempo presente, doveva abbandonare la sfera dell’esemplarità e condurci dentro una storia in cui contavano le vite concrete, le passioni, i timori e forse anche il continuo conflitto con se stessi per cercare di capire chi si è, che cosa si vuole, cosa significa porsi al bivio tra le proprie passioni e le scelte pubbliche. L’impegno a esserci, ma anche la percezione che ci sia una sfera del proprio privato.

Una condizione che ha come fondamento la consapevolezza di vivere una guerra anche civile, e poi di avere motivazioni personali con cui fare i conti.

Perché quella dimensione arrivasse al tavolo della ricerca storica doveva passare molto tempo, non solo dal testo di Fenoglio, ma anche da quello di Calvino. Infatti, solo un quarto di secolo dopo le considerazioni di Calvino con Una guerra civile di Claudio Pavone si può dire che inizi – non che si compia definitivamente -quel passaggio verso l’assunzione degli elementi, delle passioni personali, spesso difficilmente raccontabili in pubblico, che fanno delle scelte individuali uno dei percorsi attraverso i quali si produce storia collettiva o, almeno, si partecipa al farsi della storia collettiva.

Possiamo chiederci perché e forse la risposta apparente è nella dimensione della «guerra civile». Ma assumere quella dimensione vuol dire avere consapevolezza che quel vissuto, ha tempi molto lunghi, oltre il tempo stretto degli eventi concreti a cui si riferisce.

Come aveva intuito Pavese nella chiusa di La casa in collina, laddove si legge:

«Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: E dei caduti che facciamo? perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.»

Per cui affrontare i nodi di quel tempo, voleva dire aprire due percorsi diversi ma complementari che tendevano entrambi a smontare la guerra civile come epos e a riportarla alla sua dimensione di quotidianità e, forse, anche di banalità.

Sono due dimensioni che riguardanorisettivamente: il «dopo» e il vissuto del «durante».

Il «durante» è quello raccontato da Fenoglio, con la consapevolezza delle molte amarezze che quella vicenda si trascina dietro.

Il «dopo», Fenoglio a suo modo lo racconta ne La paga del sabato, ma anche negli stessi anni prova a raccontare Carlo Cassola con La ragazza di Bube. Ma il terreno del lungo dopoguerra resta comunque non toccato.

Con Una guerra civile di Claudio Pavone – siamo nel 1991 – forse si rattava di avviare un percorso, ma non inizia nei fatti, se non dieci anni ancora dopo. È Giampaolo Pansa a provare a forzare quella porta.

La discussione pubblica intorno al suo lungo percorso – inaugurato nel 2002 con I figli dell’Aquila –  che ora è possibile rivedere con la raccolta Non è storia senza i vinti (Rizzoli) – indica che non si sono fatti significativi passi in avanti.

L’operazione che Giampaolo Pansa rivendica – quella che definisce di «completismo» e che molti leggono come da una parte «uno che finalmente gliele canta» oppure, dall’altra, come «revisionismo negazionista» dimostra che qualcosa continua a non funzionare.

Si può osservare come Giampaolo Pansa non governi il suo progetto, perché la sua intenzione rimane quella della denuncia e non quella della ricostruzione complessiva. In altre parole: perché per aprire un percorso non basta denunciare, o raccogliere storie o sfogarsi. Quel percorso non è gli oggetti che porta al tavolo della discussione, ma il progetto culturale che propone: una visione di insieme, la percezione di una missione civile del raccontare storia. Quella forse è nelle intenzioni, ma poi non si traduce in oggetti, perché ciò che resta problematico è come ricostruire sentimenti e come i sentimenti provati si connettono con sensibilità che costituiscono i criteri e i canoni con cui si capisce la scena dell’agire di uomini e donne -singolarmente considerati o come gruppi – rispetto ai valori a cui dicono di ispirarsi e per le scelte che fanno. Una scena che deve prendere in carico almeno cinque livelli: la coerenza di ciò che pensano; le scelte che compiono, le opinioni che hanno; quando dei primi tre livelli; il dove di tutti i primi quattro livelli.

Il che pone problemi di ambiente, di tradizioni culturali, di culture popolari localizzate. Tutte cose che hanno a che fare con l’appartenenza politica, con il campo politico che si sceglie, ma che non stanno esclusivamente nel bagaglio culturale e politico di quella appartenenza.

Tutto questo in Italia continua a latitare.

Meglio se anche diversi cantieri di lavoro ci testimoniano di una indagine meditata sul tema della violenza tra guerra e dopoguerra (tanto per fare dei  nomi:  Filippo Focardi, Guido Crainz; Marco Bernardi; Chiara Colombini; Raoul Pupo; Eric Gobetti) poi quei cantieri non sono riusciti a diventare discorso pubblico.

Per questo quel terreno rimane ancora fortemente problematico.

Forse per trovare una lingua (non la verità) potrebbe cominciare da un breve racconto di Fenoglio che forse contiene in nuce molte di queste cose e che sta alle soglie di Una questione privata. Il racconto si intitola Il padrone paga male (ora ricompreso qui). Fenoglio lo scrive nel 1959 (poi riversato da Dante Isella nel capitolo X de L’imboscata, romanzo incompiuto di Fenoglio).

Se oggi dunque vale la pena riprendere in mano Fenoglio, o se ci deve restare una lezione da Fenoglio, così come quella richiamata dalla vicenda Pasolini da cui abbiamo preso le mosse, è proprio in questa incapacità di porre storie superando la dimensione del rivendicato. In altre parole: una memoria che non si fa storia, ma continua ad essere risentimento.

Per questo Fenoglio è ancora lì, come Pasolini ad indicarci una condizione solo apparentemente risolta nel reale. In concreto, quella condizione, è ancora tutta davanti a noi.

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