Letteratura
Balzac e le massime nel romanzo
Note di narratologia a proposito di un romanziere, Balzac, maestro dell’aforisma.
Le sentenze nei romanzi
Se aprite un romanzo, qualsiasi romanzo, troverete grosso modo almeno quattro tipi di sequenze o segmenti o momenti o item. (Roland Barthes in “S/Z” ne individua cinque e li chiama “codici” e ne trae considerazioni complicate di cui dirò un’altra volta). Il primo item è propriamente narrativo, una proposizione come questa: «La marchesa uscì alle cinque» è già narrazione. Basta che ci sia un verbo d’azione e il gioco è fatto dice Gérard Genette (in “Figure III”): «Una narrazione è l’espansione di un verbo.» Siamo sicuramente davanti a una narrazione, o un frammento narrativo, un mini-romanzo.
Altro momento è quello descrittivo. «Quel ramo del lago di Como» ecc. Lo so, questo elemento non è così facile da considerare (perché ci sono molti tipi di descrizione), ma accontentiamoci di quell’esempio manzoniano (Philippe Hamon ci ha scritto su un tomo di centinaia di pagine “Du descriptif”. Mettiamolo da parte in questo momento).
Poi c’è un momento dialogico. I personaggi si parlano, e parlandosi si autonarrano e autodescrivono. Flaubert detestava i dialoghi che in genere evitava per considerazioni che ho riportato altrove. (Preferiva lo stile indiretto libero. C’è un solo dialogato lungo in “Madame Bovary “, quello col curato Bournisien, ed è magnificamente svolto perché sono due personaggi mediocri alle prese coi loro pensieri che nei fatti non comunicano. Una sorta di dialogo assurdo tra assenti. Splendido!). Lo scrittore americano Franzen in “Correzioni” ne fa un uso intensivo secondo il principio micidiale delle scuole di scrittura creativa “show don’t tell”: infatti adottando questo item aumenta in modo esponenziale la foliazione del libro, devo dire gradevole e artisticamente riuscito nel complesso in questo caso, oltre 600 pp, poiché deve mostrare (to show) attraverso i dialoghi gli stati d’animo spesso depressivi dei suoi protagonisti piuttosto che riassumerli (to tell). Come anche la scrittrice Ivy Compton-Burnett che piaceva molto ad Arbasino il cui stile dialogico importa in “Fratelli d’Italia”, che infatti è un romanzo-conversazione, non sempre aereo e sciolto. (Ne abusa invece secondo me Bret E. Ellis in “Schegge”, con risultati di pesantezza testuale notevole. Ne ho scritto qui quando ho tentato di recensirlo). Se ci pensate bene si tratta del teatro, la tecnica dialogica del teatro dico, trascinata dentro il romanzo. Col dialogo i personaggi dovrebbero essere “autonarrentesi”, ma se tu, autore, inserisci porzioni lunghe di dialogato senza altre indicazioni di servizio, p.e. i verbi allocutivi ed esplicativi del tono, dell’umore del parlante, ecc non fai un buon servizio al lettore, perché egli a differenza dello spettatore dei teatri o del cinema non vede i personaggi, e la loro interpretazione da parte degli attori, e deve perciò fare uno sforzo di decodifica aggiuntivo che alla lunga stanca.
Infine c’è un momento che non è né descrittivo, né narrativo, né dialogico, è il momento gnomico. Brutta parola per dire una cosa molto semplice. Ad un certo punto l’autore se ne esce con un apoftegma, una sentenza, una massima, una dichiarazione del tipo: “Tutte le famiglie sono felici allo stesso modo, ogni famiglia è infelice a modo proprio” (Tolstoj, in “Anna Karenina”). Vi sono altri momenti più secondari (metaforico, lirico-poetico,
ecc) che tralascio perché sono residuali . Dico che il momento gnomico è diffuso nei testi narrativi più di quanto si creda. Ed è secondo il mio avviso l’item dominante nella procedura stilistica di Balzac, un autore che amo in sommo grado. Apro a caso le sue opere complete in edizione ultraeconomica, pochi spiccioli per avere sotto le dita un patrimonio immenso di bellezza letteraria, e mi imbatto continuamente in una sequela di sentenze, massime, apoftegmi, considerazioni ecc.
Eccole:
Il cuore di una donna di venticinque anni non è più quello di una ragazza di diciotto come quello di una donna di quaranta non è quello di una donna di trenta. Ci sono quattro età nella vita di una donna. Ogni età crea una donna nuova.
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L’uomo che riesce a imprimere perennemente il pensiero nei fatti è un uomo di genio; ma l’uomo che ha più genio non lo dispiega in ogni momento; sarebbe troppo simile a Dio.
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Il problema della beatitudine eterna è un problema la cui soluzione è nota solo a Dio nell’altra vita. Qui sulla terra, poeti sublimi hanno eternamente annoiato i loro lettori affrontando il quadro del paradiso.
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Spesso c’è più piacere nella sofferenza che nella felicità, vedi i martiri.
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Se l’umanità, se la socievolezza, fossero una religione, egli poteva essere considerato un ateo.
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Se vi parlo così del mondo, lui mi ha dato il diritto di farlo, lo conosco. Pensate che lo biasimi? Non lo biasimo affatto. È sempre stato così. I moralisti non lo cambieranno mai. L’uomo è imperfetto. A volte è più o meno ipocrita, e gli sciocchi dicono che ha o non ha una morale.
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Quelli che i moralisti chiamano gli abissi del cuore umano sono solo i pensieri deludenti, i movimenti involontari dell’interesse personale. Queste svolte, oggetto di tante lamentele, questi ritorni improvvisi sono calcoli fatti a beneficio del nostro stesso divertimento.
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I moralisti non riusciranno mai a trasmettere tutta l’influenza dei sentimenti sugli interessi. Questa influenza è potente quanto quella degli interessi sui sentimenti. Tutte le leggi della natura hanno un doppio effetto, in direzioni opposte.
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Ho riportato a bella posta alcune massime che hanno per oggetto i moralisti perché sono proprio essi i riferimenti di Balzac. Sono quegli intellettuali del Grand Siècle francese (il ‘600) cui fa riferimento Nietzsche, anzi mutuando proprio da loro lo stile aforistico, in “Umano troppo umano” (1878) che è giustappunto una raccolta di massime sulla loro scia. «Oggi è giocoforza mettersi a scuola dei vecchi Francesi» scriverà in Umano troppo umano. (aforisma 203).
Si tratta di La Rochefoucauld, La Bruyère, e nel secolo successivo Chamfort, Vauvenargues, ecc. I Moralistes francesi sono quegli autori che più e meglio hanno scritto sul cuore dell’uomo prima dell’avvento della psicoanalisi. Il loro era uno studio — rimasto con grande risalto nella tradizione francese — sulle passioni e sui costumi degli uomini (les mœurs, dove questi mœurs mostrano la chiara origine latina: “mos-moris”). Non solo i costumi in senso lato, ma le maniere, le inclinazioni e i comportamenti individuali e collettivi sono al centro dell’attenzione dei “moralistes”… Non è un caso, attenzione: nelle “Illusioni perdute” Balzac farà derivare il romanzo moderno proprio dalla grande tradizione moraliste. Scriverà perciò nitidamente: «Il romanzo abbraccia il fatto e l’idea con invenzioni che esigono lo spirito di La Bruyère e la sua morale incisiva». Perché questo aveva fatto Balzac: condurre a termine il lavoro di scavo e di disvelamento dei moralistes classici del Grande Secolo, e coniugare questo lavoro di estrema raffinatezza intellettuale coi mezzi dozzinali e popolari offerti dal genere romanzo. Da qui l’andamento della sua prosa deliziosa che alterna una massima alla La Rochefoucauld alla descrizione di un personaggio popolare come Vautrin… Non si mette in piedi una grande e sublime letteratura per sbaglio. Tout se tient.)
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