Letteratura
Baba: esordio tenero e feroce di Mohamed Maalel
Crescere è un mestiere complicato. Farlo da “straniero in patria” lo è anche di più. Nel suo romanzo d’esordio – Baba, edito Accento – Mohamed Maalel accompagna il lettore lungo un percorso dai confini incerti, un cammino che prende il via dalla malattia del padre, costretto nel letto di un ospedale, per ripercorrere a ritroso una vita intera, fra Andria e la Tunisia. Ahmed nasce in una famiglia italo tunisina e trascorre l’infanzia e l’adolescenza in Puglia, circondato dall’affetto di una di quelle famiglie allargate che fanno parte del nostro immaginario nazionale: i grandi pranzi con i parenti, le visite a casa accompagnate sempre da un dolce offerto, la nonna impegnata in costanti sessioni di cucina a base di fritti. Casa sua però è anche Baba, il padre operoso, pieno di nostalgia per la sua Tunisia, attento a non tradire i dettami del corano, integrato, ma incapace di abbandonare una certa diffidenza nei confronti degli “italiani stranieri”, delle loro abitudini, delle loro tradizioni. Un uomo estremamente tenero con il figlio, ma anche duro con la moglie Paola, con Selem, fratello maggiore del protagonista, ossequioso nei confronti di un padre lontano verso cui porta rispetto nonostante si sia dimostrato nel tempo capace solo di tramandare cattiveria e assenza emotiva. Tre sono le generazioni che si confrontano in questo romanzo: quella del giovane protagonista, quella del padre, della madre, degli zii, quella dei nonni – al di qua e al di là del Mediterraneo – e diventa spesso difficile capire se a dividerli sia la distanza anagrafica o culturale. Ahmed infatti è distante dal padre come lo sarebbe qualsiasi ragazzo. Le differenze caratteriali e valoriali, i desideri di emancipazione, l’impossibilità di condividere la propria identità sessuale: nessuno di questi elementi implica una diversità dall’esperienza di vita di qualsiasi altro coetaneo. La famiglia ti capita, a prescindere dalla nazionalità. Per Ahmed però la distanza è acuita da uno spazio geografico interiore che gli impedisce di sentirsi compiutamente italiano o compiutamente tunisino, così come, per larga parte del romanzo – seguendo la linea dei romanzi di formazione – l’età di confine fra piena maturità e tarda adolescenza gli impedisce di definirsi in modo netto. Così il lettore resta con lui sulla soglia, pagina dopo pagina, in attesa che il padre guarisca, ascoltando la storia delle loro vite, fermandosi spesso a riflettere su quanto, in tanti passaggi, siano simili alle proprie esperienze vissute in prima persona. La brioche al bar la domenica mattina, la passeggiata al mercato, le avventure nel cortile della fabbrica, i primi approcci adolescenziali all’amore, i bulli fra i banchi di scuola: pezzi di vita che ritroviamo con tenerezza malinconica, ma anche con una certa fatica, perché i ricordi non sempre sono piacevoli da rivivere. Poi Tunisi, la circoncisione, le preghiere rivolti alla mecca, il divieto di mangiare carne di maiale, le vie affollate del mercato – lo stesso mercato di Andria, solo con profumi e colori diversi – i parenti che parlano una lingua che si comprende poco. Siamo a casa e siamo lontanissimi. Potremmo essere ovunque, in un non luogo sospeso che unisce, come uniscono le sale d’aspetto degli ospedali, quando si aspetta il referto di un medico. Una storia potentissima, scritta con una prosa matura e un tratto originale di penna già riconoscibile e marcato. Mohamed Maalel ha trovato già dall’esordio una sua voce che risalta e convince il lettore, capace di muovere i sentimenti senza sentimentalismo, il pensiero senza sconfinare nell’analisi sociale. Un libro intenso, un bel viaggio da fare insieme di cui abbiamo parlato con l’autore in una breve intervista.
Baba è un romanzo tenero e feroce, che riesce a scavare in modo intimo nel periodo che abbraccia infanzia, adolescenza e prima età adulta di tutti noi. Un romanzo di formazione a cavallo di due mondi e due culture, in cui Italia e Tunisia si fondono all’interno dell’abbraccio accogliente, ma anche molto faticoso, della famiglia. Come sei riuscito, in questo tuo primo lavoro, a tenere assieme “tutti i pezzi”, rendendo – fra l’altro – familiari al lettore italiano paesaggi emotivi geograficamente distanti e stranianti i nostri immaginari quotidiani?
Credo che tutto dipenda da un lavoro di emozioni. Scrivere per sé impedisce agli altri di sentirsi parte di un discorso dove nessuno è mai escluso. Rendere reale l’immaginario non è mai facile, con Baba ho deciso di lavorarci fin dall’inizio. Ho raccontato di storie familiari, di paesaggi lontani ma che nel cuore sono vicini, cercando un punto d’ancoraggio dove sentirmi sicuro. La speranza era avvicinare il lettore a un quadro dove ognuno fosse libero di interpretare secondo i propri ricordi, secondo il proprio vissuto. In fin dei conti, si soffre in maniera diversa, si ride in maniera altrettanto differente. Baba è un racconto sincero, non avevo altri obiettivi in mente. Mi rallegra sapere che qualcuno abbia trovato qualcosa di vicino a sé, è una bella soddisfazione. Continuerò a ragionare sempre allo stesso modo.
Dal racconto emerge tutta la complessità di una doppia “casa”, ma anche l’incredibile semplicità nella mescolanza delle relazioni affettive, che – a loro modo – sono sempre uguali, in tutto il mondo. Come hai lavorato per riuscire a scavare in modo così approfondito sulle intime relazioni emotive all’interno del contesto familiare e, parallelamente, sugli scenari di diversità culturale?
Non dico sia stato semplice, ma neanche troppo difficile. Credo sia tutto un lavoro di memoria, perché è lì che ognuno di noi può trovare la sincerità dei momenti passati. Nella vita quotidiana amo parlare delle mie vicende passate, da quelle più tristi a quelle più allegre, forse mi ha aiutato a essere più trasparente. È inutile star lì a cercare una risposta su ciò che è giusto o sbaglio in termini di discorso familiare, lo stesso vale per la diversità culturale. Ho sempre considerato le differenze nella loro complessità, senza cercare necessariamente una singola risposta. Questo mi ha aiutato nel racconto della famiglia di Ahmed, che in fin dei conti è anche la mia.
La forma del romanzo è molto complessa, nonostante si presti a una lettura assolutamente scorrevole, e mescola dialoghi e digressioni, diversi piani temporali e spaziali, riflessioni essenziali riportate come piccole finestre sull’animo del protagonista. Quali sono stati i tuoi modelli o i tuoi riferimenti, non solo letterari, nella stesura di questo libro?
Nello scrivere Baba, mi sono affidato alla musica e alla lettura. Di solito, non pretendo che qualcosa mi influenzi, è un discorso un po’ più complesso. Assorbo in silenzio ciò che sento utile, simile, affidabile. Diventa così tanto intimo da dimenticarne il nome. Può essere una canzone che mi ricorda l’infanzia o l’adolescenza. C’è un libro che mi ha però lasciato qualcosa di davvero importante: “In tutto c’è stata bellezza” di Vilas. Leggerlo durante la malattia di mio padre mi ha spinto a credere nella narrazione come strumento di profonda memoria. Ricordo che arrivato all’ultima pagina sono restato a letto con lo sguardo fisso al muro per mezz’ora. Non riuscivo a guardare la copertina, ero come bloccato. Lo rifarei, mi ha aiutato tantissimo.
Baba è un romanzo di formazione dal quale emergono tutte le difficoltà di “crescere” proprie di una generazione – la prima forse a doversi confrontare con modelli diversi da quelli della “sicurezza adulta” del Novecento – e allo stesso tempo di chi, da figlio di due culture, vive sulla sua pelle il tema della multiculturalità. Come vedi il nostro paese in questo momento, sia dal punto di vista della prospettiva per i “giovani” (o appena meno giovani), sia dal punto di vista della pluralità culturale?
L’Italia è un paese in cui la creatività e le passioni sono spesse soggette al peso dell’ansia sociale, del riuscire a tutti i costi. Fallire è disumano, non va bene. Tutto ciò toglie corpo alle proprie parole, al proprio futuro. Essere diversi diventa un tema da sfruttare, per mostrarsi al passo coi tempi. Manca sincerità, e chi ne fa uso diventa lo zimbello di chi si reputa più maturo, o più capace. Essere giovani oggi in Italia significa vivere in un paese in cui le scelte non sono mai nostre, ma spinte da modelli che perdurano da anni, oggi ancora di più. Bisogna valorizzare le culture, farne strumento di inclusione, comprensione, futuro.
Stai già lavorando su qualche altro progetto?
In realtà non ho mai smesso, ho progetti nella mia testa ogni giorno, ma sono talmente imbranato che dimentico di prenderne nota. Anche in questo momento mi domando: che cos’è che avevo pensato ieri sera?
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