Letteratura
“Avrei voluto scarnire il vento”, la poesia al femminile di Grazia Frisina
Le parole non sono mai neutre, né insignificanti, né inutili, hanno un peso sempre perché hanno la capacità di nominare e dunque di fare esistere, persino quello che non avevamo neppure il coraggio di immaginare.
Per questo vanno utilizzate con cura, perché nascondono un potere sovversivo, un germe di ribellione, la capacità – straordinaria e terribile – di definire l’umano.
La parola poetica, poi, ha un potere alchemico, ha il potere di forgiare il nostro immaginario. Ha una potenzialità immensa che sfocia nel sortilegio e quindi va utilizzata con cura, con senso della misura, con accortezza. Ē il fascio di luce che passa attraverso il prisma e separa tutti i colori del mondo.
In “Avrei voluto scarnire il vento”, Grazia Frisina compone trentadue poesie in cui il classico e il contemporaneo si incontrano e si esprimono attraverso figure di donne che hanno espresso il diritto ad essere differenti.
Ne incontriamo diverse, tra le altre, Penelope che vive in una dimensione di incessante attesa e di melanconica solitudine, nonché isolamento. I sentimenti che le pervadono sono quelli di un’ansia che a tratti si fa vera e propria paura, contemperata da momenti improvvisi di speranza, chiusa nel suo mondo interiore, del quale è quasi prigioniere, fissa nel desiderio logorante e angoscioso che la persona amata torni finalmente da lei. Eroina del dolore, la sua pena che trova sbocco nelle lacrime, fedeli compagne delle sue notti, la porta ad arrivare ad invocare Artemide di concederle di morire nel sonno subito così che nel piangere non si consumi la vita per la nostalgia del suo amato sposo. Una preghiera alla dea che Penelope – sempre in pianto – rinnova di nuovo in un frangente di ancor maggiore scoramento in cui alla prospettiva di doversi risposare con un altro uomo, la regina preferisce la morte.
Eccomi davanti all’ orizzonte
a non sospirare più gli arrivi
Il tuo ritorno
In questa spiaggia ho sotterrato
lo sciame dolente dei giorni d’attesa
E ora che senso ha la tua venuta?
Come puoi ancora conoscere
le linee del mio corpo? Le movenze? Le cicatrici?
… Questo mio salmodiare triste
Molto di più ne sa il rosmarino
che profuma delle mie lacrime
……Certo ad altri uomini avrei concesso i miei sorrisi
se solo tu avessi sciolto i lacci dei tuoi abbracci- bugiardi
con cui avrei deliberato la mia sudditanza
prima che inchiodassi la mia veste
sulla soglia d’oro del palazzo
e mi lasciassi per compagna la notte
col suo secco labbro.
Ogni volta che mi sono ritrovata a leggere le poesie di Sylvia Plath, mi veniva da piangere lacrime cocenti per la sua fine. Ē difficile accettare che si possa decidere di uccidersi mettendo la testa dentro ad un forno e sognavo spesso di entrare in cucina in tempo per salvarla.
La modernità di Sylvia va ricercata nel fatto di aver avuto il coraggio di parlare di malattia mentale e, in parte, quindi, della sua vita, e di mostrarne la sua tragica invisibilità. La sofferenza dovuta alla depressione -subisce anche un ricovero in un istituto psichiatrico – non le impedisce di denunciare il distacco dalla società, il tabù della malattia mentale, i trattamenti di elettroshock. Ne descrive la pervasività in ogni aspetto della vita, che lei definisce appunto la ‘campana di vetro’, una separazione, cioè dal resto del mondo. La depressione non riguarda una persona ai margini della società, ma una giovane ragazza brillante e apparentemente di successo. La campana di vetro è la sensazione di incapacità di trovare un posto nel mondo, una condizione che a vent’anni diventa un macigno e che per qualcuno più che per altri può essere insostenibile. Tutto in città le sembra incredibilmente stupido e la costringe a fingere in continuazione di essere a proprio agio. Ē perennemente divisa tra il sé interiore, tormentato e inquieto, e quello che la società si aspetta da lei: che sia una donna in carriera, ma che sia anche una moglie e madre perfetta.
Capo chino
L’America è là squillante
Fuori dal vetro- prossima e nemica
……Scrive lei tallonando
Le ore e le ansie
………quarzite osso elettrizzato shock
Shock shock shock
lampi che bucano il cranio
Lei scrive
per capire
come sotto le cellule
s’accalchino incanti e spaventi
brame e schianti
per scoprire dove avviene la germinazione
di quei tortuosi sonnambuli pensieri
che come pipistrelli strapparono
le trecce alle biondebimbe.
L’ossessione per la morte non risparmiò Emily Dickinson che, dopo i primi, fugaci entusiasmi per gioie adolescenti e amori fantasticati, sceglie il segreto dell’ascesi e la vita monacale. Le poesie, mai pubblicate, sono il segno di una esclusiva attenzione al suo imperscrutabile mondo interiore, una veggenza intima che si dipana come in un diario quotidiano di soprassalti e di percezioni. Una stenografa dell’anima che evidenzia cortocircuiti e incandescenze, sottolineando l’inesorabile sfida della sua vita breve e segreta a ogni normale esistenza terrena.
Se tende a confinarsi in casa, vestita di bianco, esce di notte e, nella bruma leggera, raggiunge un varco aperto alla vista lungo la siepe del giardino per contemplare la grigia guglia accampata nel cielo cinereo. Emily ha saputo guardare oltre le mura domestiche e analizzare e osservare la natura e la bellezza della terra. Il suo spazio domestico finiva per coincidere con il giardino della mente nel quale coltivava la pianta dell’ispirazione lirica.
Indossando la capricciosa
veste di maggio
le cautele gettai
Senza riluttanza
Il vento come una danza entrava
tra gli spifferi della mente
Presi dimora nel prato- foglia
tra le foglie- a inverdire
le fredde camminate delle ombre.
Per un gioco di voglie
ìndiscreto- trasecolarono le nostre fibre
sino all’ubriachezza.
Sentii il silenzio cantare ed elevarsi
all’esultanza- come gotica
cattedrale al cielo.
Un lirismo che incontriamo sublimato nella figura di Frida che trasfigura la sofferenza in un universo visionario, drammatico ma di grande fascino.
L’“Autoritratto con collana di spine” include anche particolari pittoreschi, con lo sfondo verdeggiante e vagamente esotico, un chiaro richiamo alla crocifissione di Cristo di cui condivide il dolore. Arriverà a definire un martirio la sua sofferenza, simboleggiata dalle spine che la trafiggono.
Dipinge le sue ossessioni, le sue paure e i suoi limiti. La donna fissa sulla tela immagini di vita e di morte, di solitudine e di dolore, soli e lune, la natura dai colori rigogliosi. I suoi animali compaiono nelle tele come ampliamento dell’anima e trasposizione di stati d’animo e agitazioni. Frida si ritrae spesso con le libellule tra i capelli e, forse, come a simboleggiare quel desiderio di libertà e leggerezza, di resurrezione. Anche fiori, foglie e natura sono chiaro riferimento alla rinascita e fertilità della terra.
Una foresta mi cresce
dacché fra le ossa rotte
nel polso s’innestò una spina
un voluttuoso sangue verde di vita.
Aggrovigliate fra le falangi
radici grandiose svettano
palme di bambù ed ebano
che neppure sapevo di avere
rami brulicanti di foglie
che nessun furore d’ascia saprà sfrondare.
Nulla è più sugoso e più rosso
del rorido impasto di malizia e seduzione
dove eccitate gozzovigliavano
farfalle scimmie e serpi.
Non si può parlare di poesia senza parlare di vocazione salvifica alla parola di Alda Merini. La vocazione alla parola è l’urgenza di dire e di dirsi, di prendere questa materia incandescente che è la vita di tutti i giorni, e farne oro colato. La sua poesia è disperazione, tormento, abbandono, esclusione, impasto nel turbine dell’esistenza. Alda reclama un giusto risarcimento alle sue fatiche e ai suoi dolori messi in versi, ma, con gli occhi del disincanto, sa che mai le verrà concesso soprattutto perché forse l’entità del risarcimento stesso non potrebbe essere misurata con metro umano. La mente da cui sgorga la poesia è certo vulnerabile, e la fatica del poeta sta nel gestire questa vulnerabilità, questa follia.
L’insania stabilisce un rapporto anche magico con la realtà: la linearità dell’esistenza che si incurva, si arriccia. Il testo della ballata che Vecchioni le ha dedicato è relativo al suo periodo di internamento forzato, ma è forte in lei la consapevolezza di una diversità originaria, di una più acuta e narcisistica sensibilità, di una profondità di sguardo non comune, di una capacità visionaria quasi mistica.
Io – è vero – non sono stata
Né montagna né acqua piovana
Una cenciosa faccenda
invecchiata con la vanità
della rosa discinta
del gemito maturata
Tra passato e presente
nell’ordito di giorni
ne ho perse scommesse
ma ho anche rinvenuto
il coraggio di essere
splendore d’insania.
La “disobbedienza segreta” che ha fatto fiorire i migliori versi della Merini la ritroviamo in Eva.
Quando Eva sceglie di disobbedire, mette in atto il primo passo simbolico dell’intelletto. L’intelligenza disobbedisce all’automatismo e sceglie il territorio della libertà, anche se più arduo. La parola chiave è nel significato del termine “disubbidienza”. Cominciamo con il considerare che le rivoluzioni hanno sempre origine da un atteggiamento di disubbidienza consapevole, nel risveglio di una coscienza che non vuole più nutrirsi di stereotipi e di ideali apparecchiati su una mensa cialtronesca e di facciata. La disubbidienza di cui stiamo parlando non è una scorciatoia semplice, ma un atto di coraggio.
In lei c’è il seme dell’esplorazione, dell’azzardo, della curiosità. Ascoltando il serpente, Eva ascolta se stessa, la sua intima natura, volta a scandagliare le profondità dell’animo umano. Il gesto di Eva è in linea con la sua natura: l’affermazione della individualità umana. Nel momento della trasgressione all’ordine di un Dio-Padrone, Eva inizia la grande liberazione dalla sudditanza nei confronti della Divinità.
Ricominciando dal senso della nuvola
che ogni istante sceglie di farsi nuova
scelsi di diventare altra da ogni obbligo
Batteva un no sulla mia costola
Poco importava se lo scandalo
del serpente
lontano dal giardino mi scagliasse
Voglio essere bella come una santa_ Essere cura del frutto proibito che nel grembo m’ indora
e se anche lo prendessi non cederò al dolore
ricreerò dal mio stesso fango con le mie stesse
doglie la vita che sempre porto.
Venga poi la vecchiezza a staccare
l’ultimo bottone alla bellezza.
Alla fine di questo prezioso “canto poetico scandito di donna in donna carnalmente calate dentro il destino umano, mai appiattite né dalla necessità, né dalle convenienze e mai asservite alla tiepidezza del vivere, rivestite di autentica umanità, unite da una mistura di sensibilità, istinto, intelletto e cuore” troviamo lei, Grazia Frisina.
La poesia di Grazia Frisina si fa interprete di un mondo interiore ricco e complesso, nelle parole, in una sola parola, ci può essere l’infinito di un pensiero che non termina, di un pensiero che si espande dal buio più assoluto, alla luce più accecante. La sua parola diventa interprete universale, diventa sé stessa, diventa l’altro. Grazie al suo valore simbolico, evocativo, fa breccia nei nostri cuori, per poi giungere ad illuminare le nostre menti. E ancora induce a pensare, a guardarsi dentro, a riappropriarci della nostra interiorità, soffocata dalla polvere inconsistente dell’esteriorità, minata dalla falsa necessità di dover apparire ad ogni costo per poter essere.
Il “canto poetico” di Grazia è la scienza dello stupore, sapienza di chi sa che i libri di poesia non sono libretti di istruzioni, manuali di sopravvivenza, ma che nascono, spesso, da una profonda sofferenza interiore, un travaglio intimo. Un profondo, viscerale amore per la vita è condizione inseparabile dalla poesia, perché l’oggetto di quest’ultima non può che essere la vita stessa, da affrontarsi con coraggio anche e soprattutto nella quotidianità, con tutto ciò che di negativo e positivo essa presenta. È nell’ apparente inutile bellezza della poesia che risiede la sua stessa forza, il suo significato più profondo, nella sua capacità di porre interrogativi in un mondo dove sembra che ci siano troppe, facili, inconsistenti risposte a tutto; nell’ offrirsi come ricerca del senso, decantazione delle passioni, cura dei mali dell’anima, conciliando forza e fragilità che non è debolezza, ma una maggiore intensità emotiva e sensibilità.
Ecco a cosa servono, oggi come da sempre, i poeti: a scoprire nuove verità di vita, ad aprire uno spiraglio oltre la vita stessa.
Fui più volte
Emily Marina Sylvia….
M’apparvero vestaglie sonnambule
andare in assoluta bellezza
con candele d’indugio
su libri lettere e quaderni…..
Ragazza col cuore increspato
A tanta ronda perpetua
di parole- affilata devota
Imparai da loro a rintoccare
con voce di sciabola
il disordine che passava
giù per le costole
a levigare le ore con insolenza
di qualche verso caparbio
……Poco importa se ora
resto muta
Allo specchio mi guardo
Grazia imbiancata
Senza ornamenti
Occhi che galoppano ancora
Sono tortora
fronda di betulla
A loro – Menadi sciamanti
in gonne di rose
sorellamente legata
a quella stessa stregata
luna
che oscilla in secchi
insonni d’echi.
Siciliana d’origine, Grazia Frisina vive in Toscana. Già docente di lettere, ha pubblicato il romanzo “A passi incerti” (2009 finalista “Premio Firenze” 2009), il dramma poetico sulla Shoah “Cenere e cielo” (2015, rappresentato al museo della Deportazione di Prato), le raccolte poetiche “Foglie per maestrale” (2009), “Questa mia bellezza senza legge” (2012), “Innesti” (2016 – opera vincitrice alla XVI ed. Premio Carver, 2018). “Pietra su pietra” (2021), “Avrei voluto scarnire il vento” (2022). Dalla pièce “Stabat Mater”, tratta da “Madri” (2018), è stato realizzato un corto, girato nel carcere di Pistoia, con la regia di Giuseppe Tesi. È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali e internazionali.
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