Letteratura
Avere trent’anni di Federica D’Amato, rigore saturnino e eco di epoche lontane
Questa nota di lettura, dedicata al libro di poesia di Federica D’Amato Avere trent’anni (Ianieri Editore, 2013), è stata pubblicata nel 2015 in uno spazio web non più accessibile. La ripropongo qui.
L’io scrivente, che in poesia è sintesi di moltitudini, significati, memorie e itinerari complessi, attivandosi crea e stabilisce relazioni con entità esterne, con realtà altre che hanno consistenza sia materiale, sia soggettiva. Tra queste tornano spesso l’altro, lo spazio, il tempo. In Avere trent’anni (Ianieri Editore, 2013) Federica D’Amato, contemplando anche l’interazione con i luoghi e con un tu possibile, concentra l’attenzione sulla relazione tra il sé poetico, creativo, trasformatore, e il tempo, o la percezione dello stesso.
Nella sua breve ma illuminante nota di lettura D’Amato definisce l’opera come un poemetto “a tratti conscio di un ragionamento formale, a volte ubbidiente al solo infuriare della tragedia”. E per tutto il libro si avverte la tensione tra una razionalità lucida e l’apertura verso un mondo più esteso, verso dimensioni dell’essere dolorose e incontrollabili, sebbene proprio per questo ricche, fertili.
La doppia polarità vede da una parte i trent’anni, intesi come chiusura di un ciclo, come preziosa pietra saturnina da cui cercare di comprendere il tempo passato, e dall’altra l’infanzia, la sua complessità ineffabile, che sembra riportare a epoche lontane, a parole e conoscenze primordiali che nei millenni ci hanno permesso di essere quello che siamo. E così l’età adulta, la contingenza, il limite del presente diventano la ragione e anche la parte di sentimento attraverso cui fare propria per quanto possibile la forza dell’infanzia e delle visioni remote, delle sapienze segrete che per vie imperscrutabili riverberano nel mondo dei bambini. Ma leggiamo alcune poesie:
Nacqui bizantina in epoca televisiva
d’alto lignaggio in participio d’amore
creatura d’avanzo nell’affamato universo
di sete e bassezze carestia bestiale d’amore
presto divenni eresiarca monumentale
il fuggire delle speranze
i mendicanti tutti ai miei piedi,
costretta a diventare la solita rosa.
*
Forse oggi si cresce a caso
ma rinunciare alla forza è sacro
soprannaturale tacere sopportare
questo caso invernale di dolore
ogni strada un presagio d’addio
le cabale del tuo sorriso
abbacinante legno del radioso.
A trent’anni accade proprio questo:
le rocce fioriscono di memorie
e la Bitinia della tua infanzia cade
se arriva la dea a divinarti la fronte,
volpe che finalmente attraversi
la porta di avorio nel libro delle ore.
*
Papà tu sei contento del raccolto
sorridi così semplice
un bambino è più complicato
una bambina nemmeno a pensarci
tua figlia trent’anni di disperazione e
il mondo fischiava
la notte fischiava
il sole fischiava
la volpe se ne infischiava
se io nell’estremo incontro di ogni via
incontrai Chopin
dicevo addio addio Chopin
tu solo mi hai voluto bene
ma the school is over,
a vent’anni un verso di Carlos Williams
mi faceva piangere
è finita, tutto era finito:
dopo trent’anni devi solo imparare
a volerti bene.
E in questa parabola temporale non sorprende la coesistenza, quasi fossero isole della memoria o segni cardinali di una mappa spirituale, di riferimenti a William Carlos Williams, a Stella variabile, l’ultimo, quasi testamentario libro di Vittorio Sereni, a Frederic Chopin, all’oriente, a terre lontane dove popoli diversi si sono succeduti di guerra in guerra, e ancora la presenza di echi biblici e del cristianesimo delle origini.
In Avere trent’anni si sperimenta il naturale controllo del verso di D’Amato, che oscilla da una limpida precisione definitoria alla capacità di accogliere, con la stessa sicurezza formale, l’indicibile, ovvero di far echeggiare le profondità del tempo, e quello che le parole possono avvicinare del caos, dell’infinito, della porzione di vita che sta oltre le cose e i significati.
Foto di copertina di Claudio Carella.
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