Letteratura
“Aria di famiglia”, l’ultimo romanzo di Alessandro Piperno
Alessandro Piperno- Aria di famiglia – Mondadori, 2024.
Romanzo a trama proliferante questo di Alessandro Piperno, che è il suo primo che abbordo. Il protagonista è Alessandro Sacerdoti, ma solo alla fine si apprende il nome di “battesimo”, diciamo così, perché Sacerdoti è di confessione religiosa ebraica e lungo tutto il romanzo è chiamato solo col titolo accademico e il cognome. Egli è infatti un docente universitario di letteratura francese presso l’università di Roma e al contempo un affermato romanziere. Durante una lezione ha l’alzata di ingegno di citare alcune espressioni misogine tratte dall’epistolario di Flaubert. Apriti cielo. La reazione della studentessa Teresa Ghinassi, attivista femminista, è subito di avvampata reazione contestativa. Qui interviene un tratto del protagonista, tra l’inetto sveviano e il punitore di sé stesso (ma il termine col quale ama dipingersi il protagonista e voce narrante è “reietto”) il quale aggrava la sua situazione che poteva benissimo essere ricomposta trattandosi dopotutto del registro verbale di un letterato defunto, se nel corso della Commissione paritetica in Università convocata per discutere il suo caso il Sacerdoti, in uno scatto d’ira, non fosse esploso in un «Certo che sono frasi di Flaubert, bestie che non siete altro!».
Qui giunti la situazione si imbroglia non poco per il Nostro fino all’allontanamento dalla cattedra perché dopo un altro alterco con l’odiata Ghinassi e la querela che ne segue (dipoi romanzescamente da lei ritirata) segue una sorta di catastrofe finanziaria del Sacerdoti che privo di entrate è costretto a vendere la bella casa di campagna per sostentarsi. Naturalmente Teresa Ghinassi appare e riappare nel romanzo coi contorni fiabeschi del Nemico idealtipico, con un che di esagerato e romanzesco (si offende perché lui le cede il passo nientemeno, trattando un gesto distratto di cortesia come un atto di paternalismo maschilista ) e con sfumature parodiche consapevoli che circonda il villain antagonista Sacerdoti.
Dicevo che la trama all’avvio, e per oltre un centinaio di pagine, ha andamento randomico con atmosfere borghesi romane tra Giorgio Montefoschi e Moravia (ma anche i Vanzina forse, e non credo che dispiacerà all’autore questo accostamento) cui si aggiunge il tratto sempre più “cosiniano” che sembra assumere Sacerdoti nella sua quasi auto-parodica sventatezza e capacità autodistruttiva. Ed ecco dunque narrata la liaison con Veronica Gentileschi e gli amplessi in una sontuosa magione “à la” Mario Praz in via Giulia, la morte di lei (perché nei romanzi si muore), il suo toccante funerale, la successiva rimpatriata degli amici di liceo secondo i moduli, mi è parso, del film “Il grande freddo” di Kasdan. Quale sia il riferimento, la reunion con i compagni di classe ha i tratti di una confessione psicoanalitica corale o di seduta spiritica. Tutti parlano come in trance: una galleria di mostri sì ma tristemente veri e ben scolpiti anche se percepisci che solo la finzione romanzesca ti offre questa opportunità di vederli come in un museo delle cere, imbalsamati nelle pose sociali della sconfitta o dello scacco esistenziale. Qui la penna dell’autore incide, in belle pagine, con spietatezza crudele. Segue qualche tratto di vita accademica con il ritratto corrosivo dell’Accademico di fama, bravissimo, intransigente e irresistibile, ma che zanza sessualmente le studentesse, quindi riprende la narrazione della vita di Sacerdoti, la sua unione con Marta Pillitteri con la quale convive more uxorio in una mansarda e d’intesa rinunciano ad avere figli – e questo tema della paternità rifiutata o mancata occorre segnarlo perché sarà centrale negli sviluppi successivi del romanzo. Nel frattempo Sacerdoti per sbarcare il lunario è diventato uno di quei muppet televisivi – notare il lato farsesco o da commedia – che a bocca larga blaterano di pallone o di altri fatti del giorno finché viene notato da un certo Fefè, volgare produttore televisivo, che lo vorrebbe protagonista di una serie TV intitolata “Fanculo i maschi”, che non avrà seguito, a sottolineare la china parodica quando non farsesca che ha preso non certo da adesso il romanzo. E già siamo a quasi metà del malloppo (oltre 400 pp) ed ecco che la narrazione ha una brusca virata e approda fatalmente al suo nucleo principale, che è drammatico: la storia del piccolo Noah di otto anni, rimasto orfano di entrambi i genitori deceduti in un incidente di montagna e che viene affidato alle cure del Sacerdoti. Da ora in poi il romanzo si instrada nelle scene quotidiane di convivenza e di educazione dell’orfano Noah con alcuni colpi di scena che non riporto dove non manca la solita romanzesca, ingente eredità del nonno, un nababbo londinese nel frattempo deceduto. Con epilogo fastoso sulla Costiera amalfitana dove vengono sciolti tutti i nodi narrativi. La scena del dénouement finale è ben condotta e scritta come si deve e lascia presupporre un sequel.
Il romanzo, di cui ho percepito da subito il côté di commedia leggera fino all’esplosione del dramma, mi ha convinto solo giunto alla fine. Inizialmente, preso dal morbo stilistico flaubertiano, mi sono divertito a repertare le similitudini flosce, forzate, fumettistiche, scialbe: «i salici piangenti spettrali come in un manga giapponese», il «gracchiante come il grugnito di un ergastolano», un «mi sembrava fastidioso come un paio di mosche in un tiepido pomeriggio autunnale», uno stupefacente «con le sue scarpe basse si spostava come un vietcong nelle foreste pluviali»…
Quindi ho preso di mira le frasi idiomatiche che personalmente mi scoraggerebbero a scrivere qualsiasi romanzo, tipo «fece capolino» o «apposito apparecchio» o «ripeteva come un mantra». «Mi farebbe senso usare in una prosa narrativa» ha scritto di recente Yasmina Mélaouah fresca traduttrice dell “Educazione sentimentale” «il rigoroso, sistematico rifiuto da parte di Flaubert di tutto ciò che può lontanamente suonare idiomatico: mai e poi mai il lettore avrà la fin troppo facile carezza, la fin troppo comoda tregua, di una frase fatta, di una locuzione. La notte senza dormire è una “notte senza dormire”, non sarà mai, in Flaubert, una “notte in bianco”».
Del pari, inizialmente non ho trovato particolarmente coinvolgenti le pagine dell’educazione di Noah. Qualche lettore, ho letto in Rete, proprio a partire da ciò, dalla svolta drammatica, è rimasto deluso. Ma occorre rilevare che sono pagine scritte da una voce narrante che ha patito particolarmente il naufragio dell’adolescenza (la madre mortagli giovane, il padre finito in galera) e che per questa ragione si è negata la paternità, forse. Certo le vicende di Sacerdoti cinquantenne in veste di padre putativo appaiono benché sensate e comprensibili piuttosto inerti ed eccessivamente cogitative, calate improvvisanente in un romanzo fino a quel punto brioso, arioso e con qualche tocco di canzonatura.
Ma Piperno, alla distanza, riesce di una misura stilistica e di una bravura redazionale più che soddisfacente. Sia nell’invenzione della trama, ossia nella costruzione e spesso ricostruzione degli eventi narrati, sia nei dettagli di questa costruzione, chiamiamolo stile, casca in piedi. I dialoghi sono fluidi, assistiti dalla voce narrante sempre vigile a scortare la repertazione del reale. Certo le similitudini non sono fior di conio, come abbiamo visto, e al pari delle espressioni idiomatiche risentono dei momenti servili della scrittura, quando occorre trovare all’impronta un’immagine che non sia frusta. Diciamo a nostra volta con una similitudine non eccelsa che l’autore “sa tenere i sacchi vuoti in piedi” come è d’ufficio per uno scrittore che ha un programma strutturato di rilevazione e narrazione del reale, ossia trionfare in quanto “romanziere”, un professionista della narrazione. Uno che viene ad un tempo invaso dalla eterna narrabilità del reale, ma anche un artista che va all’inseguimento di queste eterne modalità del reale, e cerca con sapienza e “mestiere” di riprodurle sulla pagina.
Successivamente ho valutato che il rapporto con Noah è ricco di implicazioni psicologiche, di tipo religioso, etnico (italiani vs inglesi), cittadino (Roma vs Londra «tutto ciò di cui aveva bisogno era a Roma» leggiamo), di finezze mentali oltreché di implicazioni, a cascata, genuinamente narrative. “Fanno” romanzo a sé al di là della implicazione dickensiana cui lo stesso autore fa riferimento (trama di orfani e eredità). Anzi si potrebbe dire che l’allusione dickensiana ad un certo punto sfanculata (vedi la tirata : «Fanculo il Natale, e chiunque non veda l’ora di festeggiarlo. Fanculo le religioni che rendono il mondo un luogo ipocrita e crudele. Fanculo gli ortodossi di ogni confessione. Fanculo gli inglesi, Dickens, Harrods, re Carlo III. Fanculo gli avidi. Fanculo io e l’idea di venire a Londra con Noah») è quel che è: una semplice zeppa metanarrativa destinata ad arricchire il romanzo che si legge con soddisfazione.
Piperno SEMBRA smarrirsi dopo le prime volute del romanzo. Qui ho temuto – per argomento affrontato e per soluzioni narrative scelte (tutta la vicenda dell’eredità) – che si sarebbe rotto l’osso del collo, perché il tema è scivoloso per i rischi impliciti di patetismo, e invece proprio qui alzando la posta e rischiando di suo – con spietatezza di sguardo rivolta verso se stesso, il proprio ceto sociale e in certi momenti contro i propri correligionari – riesce a non far afflosciare il rigido bastone dell’illusionista totus romanziere che è.
Ho tenuto alta la guardia leggendo questo romanzo, ma alla fine ho dovuto cedere e riconoscerne gli sforzi e il merito. Non certo per il mio amato Flaubert e quelle sciocchezze stilistiche delle similitudini e dello stile impeccabile, ma per la tenuta complessiva del tutto. Ci sono certamente punti morti e piccole falle, e un tono forse troppo intonato e polito, ma sono uscito stremato dalla lettura di una ventina di romanzi Strega scritti in prosa ipotattica per non notare l’enorme alzata di livello della pagina di Piperno, che “tiene” sempre o quasi.
Un tipo di prosa come questa, architettata e costruita secondo stilemi tradizionali (sicuramente non sperimentali) non so quanto sia apprezzata da quei lettori ormai adusi a romanzieri modernisti e postmodernisti che vanno per la maggiore, e quale risonanza possa avere presso il comune lettore abituato ai meccanismi narrativi di intrattenimento (il giallo, il fantasy ecc). C’è qui un che di elaborato e costruito, di redazionalmente accudito, certamente, allo stesso tempo non vedi come si possa rendere diversamente certe atmosfere psichiche o d’ambiente. Lo stile gnomico, moraleggiante, per me resta uno degli elementi di maggior distinzione di uno scrittore, ma anche il più rischioso. Spesso suscita malumori e diffidenze. Anche perché una prosa così ornata non sai quanto risponda alle necessità redazionali o alla volontà autoimposta di fare prosa d’arte.
La vicenda di Noah che occupa buona parte del romanzo è tuttavia, come il resto, di una solida strutturazione narrativa quanto a ideazione ed esecuzione. Piperno è romanziere coscienzioso e inattaccabile. Come un Houdini è capace di uscire dai nodi narrativi in cui si è legato, pronto a soddisfare ogni nostra richiesta e a rintuzzare ogni nostro dubbio. Sa che questa è la parte meno brillante del romanzo – quella che interessa più a lui che a noi- rispetto alla vicenda della Ghinassi e capitoli successivi, che quella di Noah ha una urgenza interiore che risponde più alle sue necessità (la mancata paternità e la paternità putativa, il parallelo con la propria orfanità per la mamma morta che torna a leit-motiv ecc) a cui piegare l’uncinazione del lettore… Eppure anche questa parte è condotta con un’allure impeccabile. Piperno ha messo in piedi un convincente meccanismo di seduzione narrativa su cui inutilmente ci avventiamo per riscontrare con le nocche critiche un vuoto, una falsa risonanza, un punto inerte o innecessario.
Infine. C’è una componente diciamo “saprofita” in ogni scrittore a mio avviso, anche nel più oggettivo e distaccato scrittore come non so un Verga (che i suoi poveracci faceva esprimere e nel contempo fotografava). Nel romanzo che ho appena finito di leggere c’è anche questa componente di trarre dosi massicce di letteratura dalla realtà circostante. Ad un certo punto Alessandro Sacerdoti, l’alias di Piperno diciamolo infine, in una sorta di pirandellismo esacerbato, è minacciato da uno dei personaggi di non metterlo nel prossimo romanzo – che è poi quello che ha appena finito di scrivere e noi di leggere. C’è anche in questo romanzo di Piperno un altro ‘vizietto’, che gli perdoniamo con indulgenza: di attingere a quella realtà “seconda” che è la letteratura stessa e metterla a servizio della propria storia, e per cui buona parte del romanzo è quasi una trama dickensiana di orfani ed eredità (per triplice indicazione diretta dell’autore, anche per mettere le mani avanti e non farsi “sgamare”), oltre alle risonanze sveviane e flaubertiane serpeggianti qua e là. Sono i tre autori, Flaubert, Svevo e Dickens, tra gli altri, da Piperno prediletti e tratteggiati in “Il manifesto del libero lettore. Otto scrittori di cui non so fare a meno” (2017). Ciò non toglie che il romanzo stia su ugualmente, perché il “nevrotico” scrittore ha costruito il suo giocattolo narrativo con astuzia e cura dei particolari, cercando e riuscendoci di “coprirsi” sulla pagina, che dopotutto è il legittimo e unico terreno di gioco, sia negli “eccessi” di trama che nei frequenti colpi di scena, con capacità di scrittura nelle osservazioni a letere e in itinere del plot, che sono sempre di alta fattura e in cui il narratore, lo scrittore e il letterato sono sempre presenti a se stesso.
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