Letteratura
Antonio Gramsci fa ancora parlare di sé
Antonio Gramsci continua ad essere al centro delle riflessioni di molti studiosi e questo “Gramsci. Una nuova biografia” di Angelo D’Orsi , pubblicato da Feltrinelli, ne è un evidente esempio. Se questa è una constatazione sulla quale c’è ben poco da dire, molto invece c’è da dire proprio sulla sostanza del volume. Non tanto per fare coro a quanto scrive Giorgio Fabre sul Manifesto, il quale fra le tante critiche che eleva mi pare sia troppo ingeneroso sul versante della godibilità del libro, ma perché non aggiunge niente di nuovo alla tradizionale lettura del personaggio e, anzi, in alcuni passaggi sembra rabbiosamente difendere le vulgate consolidate contro chi si avventura a proporre una rilettura critica di quello che, a buon diritto, può essere considerato uno dei pensatori più importanti del XX secolo. Il Gramsci di D’Orsi, pur non potendone l’autore disconoscere una certa evoluzione di pensiero che lo porterebbe ad allontanarsi dal rozzo marxismo-leninismo, resta tenacemente ancorato allo stesso marxismo di cui affina la teoria generale introducendo tutta una serie di nuove categorie interpretative – quali quella di “egemonia”, “rivoluzione passiva”, “blocco storico”, “gruppi subalterni” “cesarismo progressivo e regressivo”, “nazionale popolare” – e, conseguentemente, rimane culturalmente fermo nell’ambito del movimento comunista. Stesso discorso riguarda i rapporti con il partito e con Palmiro Togliatti lucidissimo “totus politicus”. D’Orsi infatti minimizza i presunti contrasti con il partito e soprattutto con Togliatti, fatti che avrebbero inciso sulla permanenza in prigione di Gramsci quasi che proprio il “migliore” ed i suoi, come viene sostenuto, avessero frustato tutti i tentativi messi in atto per restituirgli la libertà. La responsabilità del fallimento di questi tentativi per D’Orsi è tutta da attribuire a Mussolini che, nonostante tutto, lo volle dentro per “impedire a quel cervello di funzionare”, frase che D’Orsi accetta come vera anche se forse, come sembra, non è mai stata pronunciata. Un altro tema riguarda le condizioni in cui si svolse la prigionia di Gramsci. D’Orsi si mostra risoluto nel negare che Gramsci abbia ricevuto un trattamento privilegiato rispetto ad altri compagni di prigionia. “In un recente giornalistico – infatti scrive segnatamente rivolgendosi, senza citarlo espressamente, a Franco Lo Piparo che ha riletto in modo critico e innovativo soprattutto la vicenda dei Quaderni gramsciani – si è cercato di presentare un quadro ‘idilliaco’ della reclusione.” Se infatti qualche piccolo privilegio ci fu, a cominciare dalla cella a solo e un vitto più decente, esso sostiene D’Orsi fu pagato dallo stesso Gramsci e non fu una concessione dei suoi carcerieri e di chi – come Mussolini – lo volle dentro i quali, invece, mostrarono sempre il volto della disumanità e persino del vero e proprio sadismo, come quando le sue condizioni di salute si aggravarono. E veniamo all’opera più importante di Gramsci, quei Quaderni dal Carcere sui quali su ordine di Togliatti mise mano, e questo è notorio, Felice Platone che si sarebbe dovuto limitare a risistemarli per consentirne la pubblicazione e che invece, secondo molti, operò una seria e profonda rielaborazione per espungerne quelle parti che potevano nuocere all’immagine del partito ma, soprattutto, per consentire di costruire quella figura di Gramsci che lo stesso segretario del partito comunista italiano voleva promuovere come riferimento dei comunisti italiani. D’Orsi, che ne esamina puntualmente il contenuto e la tecnica elaborativa, respinge ogni illazione su tali presunte manipolazioni e liquida, per la verità senza una convincente giustificazione, come sciocca e viziata da un fine ideologico evidente, l’idea della scomparsa, casuale o volontaria, di uno o due quaderni la cui intelligenza avrebbe potuto dare conto di presunti nuovi approdi della speculazione gramsciana. A questo punto sorge la domanda su quale idea di Gramsci ci restituisca la biografia di Angelo D’Orsi. Il Gramsci di D’Orsi è soprattutto un intellettuale di forte coerenza – e lo dimostra il modo in cui si comporta durante i suoi dolorosi anni di detenzione nelle carceri fasciste che divengono occasione per le rimeditazioni di cui sono manifesto proprio i Quaderni dal carcere – che incontra la politica e, in questo senso, giudica fondamentale l’esperienza torinese nel corso della quale consolida e affina la sua scelta socialista, e ne fa il suo orizzonte di vita. Un intellettuale, dunque, che riversa nella propria scelta politica la propria formazione umana e culturale senza che però ciò ne determini un assorbimento tale da cancellarne i tratti identitari fondamentali. Proprio questa autonomia, se così vogliamo definirla, che lo porta ad elaborare percorsi originali e perfino eretici rispetto al dommatismo imperante – è evidente il suo rifiuto del nuovo corso sovietico interpretato dalla figura onnipresente di Giuseppe Stalin di cui si fa interprete in Italia proprio Palmiro Togliatti – ad assumere una funzione potremmo dire pedagogica.
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