Letteratura
Antonella Lattanzi. Cose che non si raccontano – Finalisti Strega 2024
Antonella Lattanzi, Cose che non si raccontano, Einaudi 2023. Finalista Premio Strega 2024
Il libro si apre con un prologo in cui la voce narrante lamenta la perdita di ben cinque figli, di cui sicuramente due aborti volontari in giovane età mentre la sorte degli altri tre è rinviata alla materia narrativa che si svilupperà di qui in avanti. E sarà ad alta tensione drammatica.
Sugli aborti e sul desiderio intenso, lancinante, di figli, sopravvenuto a ridosso dei quarant’anni, nonché del calvario clinico intrapreso per averli, seguono, a cascata, brani accorati che non sapremmo come altro definire se non un doloroso sfogo. E dello sfogo hanno tutta l’immediatezza e l’illetterarietà del testo buttato giù come a liberarsi da un peso, da un’angoscia opprimente, da un dolore puro. Per cui la pagina è come se diventasse la sbobinatura di una seduta psicoanalitica o di una confessione che ripercorre i momenti di vita pregressi e gli sviluppi successivi. Uno sfogo, ripeto, più che la redazione di un testo narrativo letterario, quel viaggio dell’eroe di Vogler, uno dei più pragmatici e modesti suggerimenti delle scuole di scrittura creativa, presente alla stessa autrice che lo cita implicitamente nel finale.
Ad un tratto l’io narrante, Antonella detta anche Toni, se ne avvede, e si interroga: «E se stai parlando solo a te?, mi chiedo. Un libro per essere un libro non può parlare solo a te. Deve essere di tutti. Come faccio a sapere se sto parlando solo a me? Un libro è una cosa seria. Non puoi scriverlo per sfogarti. Non puoi scriverlo perché serve a te».
Già. Era un nostro dubbio annotato a margine prima di leggere questo brano. Vediamo che è anche nella coscienza della scrittrice dunque, che detto sfogo è un pre-testo che vuole farsi testo. Ma è una fuggente preoccupazione dell’io narrante, in verità subito annegata nel flusso di coscienza incombente, sovrastante qualsiasi impegno non solo, retorico-stilistico, ma morale, attinente cioè quel difficile processo che è la comunicazione letteraria, che innanzitutto riteniamo essere costituita dal patto-negoziazione che si sottoscrive con il lettore implicito da rispettare, non solo un urlo a finestra aperta nel buio di quella notte, che potrebbe anche, per avventura, risultare essere la scrittura della propria vita.
Giunti a metà ci si arrende al nudo registro diaristico ad un tempo saltellante e in perenne presa diretta e ci si dispone passivamente a dare ascolto ai dolori autoriali e a concludere al più presto la lettura, mentre un’altra parte della nostra testa, più esigente e più scontenta, quella dell’ipocrita lettore, interroga ancora implorante il testo: dacci la letteratura, dacci la scrittura, ossia non il dolore puro, ma la trattazione, la rappresentazione artistica del dolore, la sua cognizione qualcuno direbbe.
Certo, la creazione letteraria in genere nel panorama letterario attuale appare spesso come un’esperienza, o come una pratica personale (specialmente in questo genere ormai dilagante dell’autofiction), sicuramente un esercizio durante il quale uno scrittore tenta sia di cogliere che di costruire se stesso. Adottando se possibile codici letterari aggiungeremmo noi, non necessariamente ornati o artefatti, ma che abbiano comunque l’astuzia di trasfigurare la propria grezza esperienza vitale, staccandola da sé e rappresentandola en artiste al fine di meglio includere il lettore nella propria vicenda narrata.
Ma qui se manca la letteratura in compenso fiorisce la metaletteratura. La voce narrante è del mestiere, è una romanziera già al suo terzo romanzo, è tutta concentrata sulla elaborazione, editazione, presentazione dei suoi manufatti letterari per elaborare i quali talvolta rinvia la decisione di fare un figlio, e il personaggio maschile Andrea (una figura evanescente uno che nel plot è destinato d’altronde a farsi “una sega nel bagno”, una “delicatezza” ripetuta due volte che ci ha fatto chiudere gli occhi immaginando le reazioni esplosive di un epiteto analogo a parti rovesciate, un’ombra sullo sfondo come l’amica Giulia rispetto all’io narrante iper-centripeto) Andrea dicevamo è uno sceneggiatore dopotutto, uno che lavora nei set cinematografici. Insomma: mezzi, metodi, tecniche di scrittura o della rappresentazione artistica dovrebbero essere familiari. E invece anche il trattamento letterario, l’elaborazione artistica dell’esistenza, qui sussunta semplicemente dalla realtà, spesso latita.
Un flusso di coscienza è per natura mimetico-redazionale necessariamente disarticolato, ma non sconclusionato. Qui talvolta è semplicemente sbobinato, ci è sembrato, disordinatamente anche per fare volume. Ma sono pagine scritte alla sperandio, a come va va, senza riguardi per il lettore. Pagine brade, disarticolate, sconnesse. E non si può invocare, a sanatoria, la gravità, la profondità, la dolororosità dei fatti narrati quando per esempio c’è un continuo andirivieni dell’adesso narrativo, un sovrapporsi di date di calendario e l’autrice mette quasi la tastiera del PC davanti al lettore e pare di vederla, a testimonianza che si sta scrivendo la cronaca vera delle proprie angosce.
La lingua non è altro che una replica del sermo cotidianus ripreso tel quel dalla realtà con molti e sbarazzini “che cazzo” e “vaffanculo”, a mimare così, forse, l’effetto di realtà, La pagina seccamente diaristica in fondo sottrae più che aggiungere pathos al referto narrativo. Non c’è ovviamente intreccio, ma quelli che i tedeschi chiamano Erlebnisse, puri momenti di vita. Lo stile è un ripetuto scrivi come parli, a suggerire forse immediatezza e sincerità, ma approdando alla fine a una pagina disadorna senza particolari attrattive letterarie e bagliori stilistici, a dispetto di quelle scosse emotive che vengono semplicemente prese dalla realtà e posate sulla pagina e dal fatto che si osi raccontare tutto, anche le vigliaccate più intime, le pieghe più malmostose del proprio essere, che di solito si tacciono ma non qui (come si suggerisce col titolo prescelto, a voler significare inusitato coraggio nell’infrazione di ogni codice, ritenuto ipocrita, di reticenza).
Alla fine non c’è romanzo in questa scrittura nonostante che tale termine non appaia, forse per pudore o avvedutezza in copertina, ma solo in una nota editoriale riassuntiva in fondo testo, ma neanche letteratura dobbiamo dire. Non c’è affabulazione, metafora, allegoria, trasfigurazione, trasposizione, proiezione, tensione narrativa che possano nascere e svilupparsi dalla mera registrazione o dall’invenzione del vero. C’è solo un resoconto diaristico, certo agitato, scosso, millimetrico, anfanante, altamente drammatico in sé (per il tema dolorisissimo trattato, che merita il massimo dell’attenzione e del rispetto) anche se si intravede a volte, uno strisciante opportunismo sui casi propri ritenuti redditizi ai fini della scrittura, questo sì letterario, compiaciuto, con un certo dilettantismo delle sensazioni incorporato. Come anche un narcisistico amor di sé, a dispetto, o forse grazie al fatto che l’io narrante esplicita volentieri con cruda sincerità i tratti più sgradevoli della propria personalità direzionando in fondo seppur via negationis l’attenzione su di sé.
Alla fine abbiamo il memoir, abbiamo il dramma, vero, reale, ma ci resta nella memoria un certo disagio, e cioè che pur partecipando emotivamente del dramma narrato nei limiti della nostra umanità generica, di aver allungato lo sguardo su qualcosa di così intimo che ci ha fatto sembrare in certi momenti non dei lettori coinvolti ma dei voyeur di un dolore altrui senza catarsi. E ciò non per colpa nostra.
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Finalisti Premio Strega 2024
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