Letteratura
“Questo giorno che incombe”: intervista ad Antonella Lattanzi
Una famiglia normale, un nuovo inizio, un trasloco e la voglia di mettere radici in uno spazio pieno di potenzialità, di aspettative. Inizia così il nuovo romanzo di Antonella Lattanzi “Questo giorno che incombe” edito da Harper Collins. Un racconto fatto di cose ordinarie e quotidiane che via via si riempie di tensione, fatta di non detti, domande che non trovano risposte, strani avvenimenti. Francesca, la protagonista, si è trasferita da Milano a Roma insieme al marito Massimo e alle figlie Angela ed Emma. La loro nuova vita li aspetta al di là dell’ingresso di un complesso residenziale immerso nel verde; Francesca, dopo anni di carriera come direttrice di una grande rivista, ha deciso di fare un piccolo passo indietro per consentire a Massimo di seguire la sua strada. Tutto sembra procedere al meglio in una sorta di mondo ovattato, dove però, poco alla volta, Francesca smarrisce sè stessa, in giornate tutte uguali, fatte di cure familiari e rapporti con una comunità di vicinato che acquista un’aura quasi soffocante. Il suo umore cambia, i suoi pensieri sulla vita, sulla maternità, sulla sua famiglia. Poi a un tratto qualcosa accade: la sparizione di una bambina, in quel paradiso di pace, sconvolge la routine e i pensieri. “Questo giorno che incombe” però non è solo un raffinato thriller psicologico, che tiene il lettore incollato, pagina dopo pagina, alla vicenda, ma un approfondimento dettagliato sull’animo umano, sui cambiamenti che avvengono, in larga parte senza sconvolgimenti apparenti, nei pensieri, nelle relazioni, anche quelle in apparenza più solide. Un racconto di grande e viva umanità, giocato sul filo di una tensione crescente. Abbiamo chiesto all’autrice di accompagnarci nei retroscena del suo romanzo, in questa breve intervista.
Partiamo dalla domanda più banale: da cosa nasce il tuo romanzo Questo giorno che incombe? Quali sono stati gli spunti che ti hanno portata, a partire da un fatto di cronaca, a strutturare un racconto complesso che racchiude temi difficili e che interrogano nel profondo il lettore?
Questo giorno che incombe nasce da un episodio di cronaca realmente accaduto all’inizio degli anni ‘80 nel condominio dove sono praticamente nata e cresciuta, e dove i miei genitori abitano ancora. Quando la mia famiglia si stava trasferendo, un condòmino ha avvisato mio padre che proprio da lì era appena scomparsa una bambina. Sono passati gli anni, e noi bambini del cortile non abbiamo mai saputo nulla di quanto era accaduto. Solo quando sono cresciuta, mio padre mi ha raccontato questa orribile storia. Subito, ho ricollegato una serie di atteggiamenti che i miei genitori e i genitori degli altri bambini del cortile avevano avuto con noi piccoli anche quando il fatto di cronaca si era ormai concluso da molto tempo. Ci tenevano sempre d’occhio, non ci lasciavano mai soli, ci chiedevano continuamente di giocare dove potessero vederci. C’era un senso di pericolo che gravava sul cortile. Noi sapevamo che c’era, ma non sapevo perché.
Quando mio padre mi ha raccontato questa storia, ho pensato che tutti sappiamo che il male esiste; ma fino a quando non lo vediamo in faccia, fino a quando non vediamo in faccia il volto più duro e crudele della realtà, non sappiamo davvero che esiste. Una volta che è accaduto, sappiamo che il male può accadere ancora. Abbiamo paura. Ho subito pensato di scrivere un romanzo a partire da ciò che era successo, ma non sapevo come. Quando scrivo prendo spesso ispirazione dalla realtà, ma poi – almeno finora – me ne distacco e invento. Poiché credo che nell’invenzione romanzesca possa schiudersi tutta la realtà.
Col tempo, ho capito che volevo, sì, scrivere di questa orribile storia, perché era mia e aveva influenzato la mia infanzia e la mia educazione e la mia vita, e perché non fosse dimenticata, ma ho deciso di scriverla dal punto di vista di Francesca. Una donna felice, realizzata, giovane, che ha un lavoro che ama, due bambine che ama, un marito che ama, ma che decide di trasferirsi con la sua famiglia da Milano, dove è nata, a Roma: pensando di trovare nella sua nuova casa la felicità e la libertà e l’amore. E invece vede quel posto trasformarsi in una prigione.
Questo giorno che incombe è un romanzo complesso, riconducibile, solo in parte, al thriller psicologico. Pagina dopo pagina vengono affrontati infatti temi difficili come lo smarrimento di sè, il difficile rapporto fra essere donna e madre, la complessità dei cambiamenti esistenziali e il portato emotivo che il passaggio a una vita differente, per quanto in apparenza “dorata”, può generare in una protagonista che ci appare comunque forte, una donna con un importante percorso di vita. Tutto si tiene si intreccia. Ti va di raccontarci un po’ il tuo lavoro? Come hai strutturato la tua scrittura a partire dall’evento di cronaca che ti ha fornito lo spunto narrativo?
Per me nei romanzi è importante squarciare il muro del silenzio che spesso ricopre come una colata di cemento le realtà non facili. Ho preso spunto da questa storia realmente accaduta, come dicevo prima, perché non volevo che fosse dimenticata. Ma ho deciso anche di raccontare la storia inventata di una donna che crolla, che combatte, che non vuole morire, che ha una spinta vitale fortissima verso la rinascita e la libertà. La storia di una donna che sarebbe felicissima della sua vita e che di colpo perde tutto. Appena arrivata nella nuova casa – dove pensava che sarebbe stata finalmente libera –, suo marito si eclissa totalmente, lei si ritrova in un condominio sinistro in cui succedono degli strani eventi, in cui i condòmini sono troppo gentili, troppo premurosi, troppo presenti. Finti. Pericolosi, secondo lei. Francesca si ritrova di colpo completamente sola, rinchiusa, imprigionata nella sua casa con le due bambine, ridotta da essere umano a un’unica funzione: quella di madre. E non capisce più se i pensieri orrorifici che la tormentano siano frutto della sua mente o realtà. Questo giorno incombe è, come dicevi tu, anche una sorta di thriller psicologico costellato di colpi di scena, un romanzo che doveva tenere un ritmo serrato, correre sempre. Per questo, per tenere insieme i tanti temi – la sparizione di una bambina, i lati chiari e quelli scuri della maternità, il sospetto, la solitudine, la sensualità, l’amore – e contemporaneamente raccontare una storia tesa, ho fatto moltissimo lavoro di preparazione, con schemi, linee dei personaggi e momenti di svolta. Dovevo sapere tutto, o quasi tutto, della storia prima di mettermi a scrivere. Nella speranza che il lettore, una volta aperto il libro, non potesse smettere fino alla fine.
Il tuo libro parla molto anche del rapporto fra apparenza ed essenza: il contesto perfetto in cui la protagonista si trova a vivere, che pian piano rivela i suoi angoli oscuri, l’apparente tranquillità di un vicinato che si fa soffocante. Credi che questi elementi siano propri, in qualche modo, della nostra società di oggi? La ricerca costante dello spazio perfetto (in cui vivere, in cui far crescere i propri figli), che ha come contraltare l’interiorizzazione di tensioni forti e le difficoltà emotive a sostenere il peso del contesto?
Credo che come essere umani siamo sempre portati a cercare un nostro posto nel mondo. Fisico, e psicologico. Non è detto, poi, che una volta che lo si trova sia quello giusto. E a quel punto, dopo aver tanto cercato, cosa fa? Stephen King in Shining parla del “carrozzone della normalità”. Quando ne sei fuori vorresti tanto salirci, ti sembra bellissimo. Quando, dopo tanto sudore, lo guadagni e ne fai parte, puoi scoprire che da lontano sembrava luccicante e da dentro non è altro che un vecchio carro che va avanti a stento.
Credo anche che quando un gruppo di persone si convince di possedere la Verità diventa molto pericoloso. Volevo raccontare come questi condòmini all’apparenza così perfetti in realtà possedessero una forte carica distruttiva, perché appunto convinti di essere un gregge, un’unica entità. Volevo raccontare il sospetto, che se è provato da una sola persona è un venticello, ma se si estende a una comunità diventa un uragano capace di distruggere tutto quello che incontra. E di insinuarsi anche nella mente di una persona come Francesca, convinta di avere le proprie idee, di saper distinguere la verità dalla bugia, la realtà dalla falsità. E invece, a furia di essere esposta a questo vento distruttivo, anche Francesca – come tutti noi – può farsi la domanda fatidica: e se tutti avessero ragione e io torto? E se tutti sapessero vivere e io no?
Centrale è la figura della protagonista, Francesca, una donna che ha scelto di “rallentare” rispetto al suo percorso professionale, per trasferirsi e dedicare tempo alla famiglia, pur lasciando spazio, nel tempo libero, alla sua parte creativa, che sembra però languire nel nuovo contesto. Francesca e il suo rapporto con le figlie, un nucleo femminile complesso, fatto di amore, ma anche di fatica, di interrogativi sull’essere madre. I suoi pensieri, i suoi sentimenti sono indagati in modo diretto, senza false pruderie: come hai costruito questo personaggio? Credi che le “Francesca” oggi vivano, nella tensione verso il dover essere sempre brave e brave in tutto, quasi un sovraccarico emotivo? Un’assenza di sè, di tempo, di possibilità di ascoltarsi?
Credo che ogni donna, da quando nasce, studi le madri – la propria, per prima, e poi tutte quelle che incontra – per cercare di capire cosa vuol dire davvero essere madre, se lei è in grado di esserlo, che tipo di madre sarebbe, se può esserlo rimanendo sé stessa, se vuole esserlo.
Io è da quando mi ricordo che guardo, che studio le madri. Ho costruito Francesca così, cercando di entrare nella testa di una persona molto diversa me – io non ho figli – che è poi quello che fa uno scrittore. O cerca di fare. Uscire dalla propria testa ed entrare in quella di persone anche molto diversi da sé. Volevo raccontare i lati positivi e quelli più difficili della maternità. Volevo raccontare che, per la maggior parte, non esistono buone e cattive madri. Volevo raccontare che un figlio non è, come dicono tutti per scaricarsi il peso della responsabilità, “della mamma”, ma di coloro che lo crescono. Appena diventi mamma, si instilla dentro di te il senso colpa: sono una buona madre? Nel dialogo continuo di Francesca con la casa – vero e proprio personaggio del romanzo – ci sono le domande che una donna si pone. C’è l’amore per i figli ma ci sono anche i momenti di odio per i figli, quei momenti in cui pensi: non ne posso più. Credo che raccontare che i bambini sono meravigliosi, ma a volte anche spietati e totalizzanti, possa far sentire meno sole le madri che in questo momento si chiedono: perché io non sono come le altre? Perché ho momenti di stanchezza, di frustrazione, di odio? Questi sono sentimenti che provano tutti, ma che vengono poco raccontati.
Chiudo con una domanda generale, ma quasi inevitabile: come vedi la donna oggi, anche considerato il complesso periodo legato alla pandemia che stiamo vivendo? E cosa significa, per te, essere donna e scrittrice?
La vedo ancora in grande difficoltà. La vedo ancora spesso costretta a scegliere tra la carriera e la maternità, soprattutto se non ha un contratto di lavoro e non ha nessuno vicino che può aiutarla. La vedo ancora poco considerata, definita soltanto per il ruolo (moglie, madre) e per sé stessa. La vedo ancora, troppo spesso, vessata, picchiata e lasciata sola a combattere. In merito alla pandemia, per esempio, sono stati tantissimi i casi di violenza domestica. Chi se ne occupa davvero?
Essere donna e scrittrice vuol dire incontrare spesso la diffidenza dei lettori uomini, per esempio. Incontrare ancora persone che pensano che ci sia una “letteratura femminile” e che non ci siano, invece, autori e libri, a prescindere dal sesso. Vuol dire far parte di una bellissima comunità di scrittrici ma anche di scrittori e di lettrici e lettori che amano i libri delle donne e combattono per loro. Vuol dire, ancora, in molti casi, doversi guadagnare un posto vero nella credibilità del mondo del lavoro.
Ph. Marco Petrus
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