Letteratura

Annamaria Testa e la poesia

Annamaria Testa si occupa di comunicazione e di creatività. Alla professione di consulente per le imprese affianca una intensa attività di scrittura come blogger e saggista e oltre vent’anni di docenza universitaria

15 Febbraio 2025

Annamaria Testa (Milano 1953), pubblicitaria, giornalista e saggista, inizia la sua carriera come redattrice pubblicitarianel 1974. Tra il 1983 e il 1996 è presidente e direttore creativo dell’agenzia pubblicitaria TPR, poi Bozell TPR, da lei fondata. Giornalista pubblicista dal 1988, collabora con diverse testate giornalistiche e con la RAI (Rai 3 sotto la gestione di Angelo Guglielmi), e si occupa di comunicazione politica. Dal 2012 ha una rubrica fissa sull’edizione online di Internazionale. Dal 1996, come consulente, realizza interventi di carattere strategico e progetti di comunicazione per imprese e istituzioni. Nel marzo del 2005 fonda a Milano la società Progetti Nuovi, che si occupa di progetti integrati di comunicazione. Nel 2008 ha messo online Nuovo e Utile, un sito non a scopo di lucro dedicato alla diffusione di teorie e pratiche della creatività.

Tra il 2010 e il 2011 ha fatto parte della Giuria dei Letterati del premio Campiello. Nel 2012 è entrata nella Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano, prima donna pubblicitaria negli oltre 25 anni di vita del club. Dal 1989 al 1997 è stata docente al master dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha insegnato “Teorie e tecniche della comunicazione creativa” in varie università: tra il 1994 e il 1995 all’Università La Sapienza di Roma (facoltà di sociologia); dal 1998 al 2006 all’università IULM di Milano (facoltà di scienze della comunicazione); tra il 2001 e il 2002 all’Università degli Studi di Milano e all’Università degli Studi di Torino; tra il 2007 e il 2016 ha insegnato presso l’Università Bocconi di Milano, continuando ad essere consulente di diverse grandi aziende. Nel febbraio 2015 si è fatta promotrice dell’iniziativa #dilloinitaliano che mira a ridurre l’uso frequente e arbitrario di termini inglesi, il cosiddetto itanglese, in particolare nel linguaggio dell’amministrazione, aziendale e pubblicitario.

Tra le sue opere: Leggere e amare. 21 racconti, 1993 – Feltrinelli; Farsi capire. Comunicare con efficacia e creatività nel lavoro e nella vita, 2000 – Rizzoli; La pubblicità, 2003, Il Mulino; Le vie del senso. Come dire cose opposte con le stesse parole, 2004/ 2021 – Garzanti; La creatività a più voci, 2005 – Laterza; La trama lucente – Che cos’è la creatività, perché ci appartiene, come funziona, 2010/2023 – Garzanti; Minuti scritti – 12 esercizi di pensiero e scrittura, 2013 – Rizzoli; Il coltellino svizzero – Capirsi, immaginare, decidere e comunicare meglio in un mondo che cambia, 2020 – Garzanti – La parola immaginata (Nuova edizione, il Saggiatore 2024).

La figura del pubblicitario, tra quelle che operano all’interno del mondo produttivo, mantiene un’aura di creatività, fantasia e libertà da schemi preconcetti che lo avvicina al ruolo dell’artista. Ma mentre a quest’ultimo si demandano la critica e l’opposizione, chi opera nel marketing viene ritenuto di supporto acritico alla produzione consumistica. Ritiene sia realmente così?

Credo che non sia esattamente così. Da una parte chi fa oggi pubblicità ha perso quasi interamente l’aura che in Italia ha caratterizzato la professione nel suo periodo più brillante (e, diciamolo, più libero e creativo) tra l’inizio e la metà degli anni Ottanta. Sempre in quel periodo, l’uso diffusissimo dello humor, dell’ironia e del paradosso ha permesso a chi faceva pubblicità di produrre messaggi anche non esattamente acquiescenti nei confronti dell’esagerata pressione ed esortazione al consumo che è propria del marketing (il quale è tutt’altra disciplina, svolta da figure professionali del tutto diverse).

Oggi la situazione è più sfumata. Il grosso della pubblicità non passa più dai mass media classici ma dai new media: sono i grandi social network che hanno modificato sia la dieta mediatica degli utenti, sia le scelte pubblicitarie e promozionali delle aziende. E, tra creator, influencer, esperti di SEO (Search Engine Optimization), content editor e altri ancora, le figure professionali si sono moltiplicate. Anche sul ruolo critico, sulla libertà e sull’indipendenza dell’artista avrei qualche dubbio e proverei a fare qualche distinzione in più. Oggi un regista cinematografico deve vedersela con le scelte (di marketing) operate dalle piattaforme di streaming. Un autore teatrale deve fare i conti coi finanziamenti governativi.  Un musicista deve sopravvivere con le elemosine di Spotify (e non è facile). Uno scrittore deve vedersela con le opacità e i numeri decrescenti del mercato editoriale. E tutti quanti (pubblicitari compresi) avranno i loro guai per via della crescente pervasività dell’intelligenza artificiale.

Poesia e pubblicità hanno tratti in comune nell’uso del linguaggio? L’utilizzo degli stessi artifici retorici (metrica, rime, assonanze, ripetizioni, filastrocche) accomuna entrambe? Ci può fare un esempio di qualche sua “invenzione” linguistica che si sia servita dei dispositivi specifici della scrittura in versi?

In realtà le filastrocche, le assonanze, le rime si sono usate in pubblicità soprattutto nel periodo tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, direi fin quasi al termine degli anni Sessanta. Da allora in poi, la caratteristica emergente e la tipicità del linguaggio pubblicitario è consistita nella capacità della parola di integrarsi perfettamente con l’immagine che la accompagna (non a caso il primo libro che ho scritto, nel 1988, si intitola La parola immaginata. Parla di pubblicità, spiega proprio questa integrazione, è diventato un piccolo classico adottato nelle scuole e nelle università ed è stato ripubblicato infinite volte – l’ultima edizione, riveduta e aggiornata, è del 2024). Credo di aver usato i versi per qualche jingle pubblicitario (scelta per molti aspetti obbligata quando si scrive un testo che deve essere musicato). Credo di aver usato solo una volta rime e versi in un testo scritto: ma si trattava di un limerick (anzi, di una serie di limerick) intesi a promuovere in modo scherzoso un altrimenti noiosissimo software per la gestione di paghe e contributi. Oggi non riesco a recuperare i testi originali, ma si trattava di cose come C’era un ragioniere di Forlì/che a far conti penava ogni dì… Sto invece sempre, e molto, attenta al ritmo e al suono di quanto scrivo in prosa. Lo faccio anche quando non si tratta di un testo pubblicitario ma, invece, di un articolo o di un saggio.

Che rilievo hanno il registro comico, parodistico, o addirittura sarcastico, da sempre utilizzato anche in poesia, nel suo lavoro? Capita che la pubblicità prenda in giro se stessa?

Come dicevo prima, humor e ironia (e anche autoironia) sono stati ampiamente usati in passato. Oggi si vede in giro solo qualche raro esempio e, mi creda, è una vera boccata d’aria fresca. Il sarcasmo, no. Perfino in una campagna sociale, che ha ambiti di libertà espressiva molti più ampi di quelli propri di una campagna commerciale, il sarcasmo rischia di essere controproducente: la pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva, e la persuasione è di per sé stessa delicata, articolata e seduttiva (altrimenti parliamo di propaganda, che è tutt’altra cosa: brutale, semplificata, imperativa).

Anche la poesia moderna, a partire dai Calligrammi di Apollinaire fino alle sperimentazioni di Lamberto Pignotti, accosta l’elemento visivo a quello verbale, utilizzando il segno grafico e l’immagine per accompagnare il testo. In quale sua campagna pubblicitaria tale abbinamento ha ottenuto più successo?

Mah, direi in tutte. Senza l’accompagnamento delle immagini insieme alle quali i testi sono stati progettati, gran parte dei testi stessi perde di senso. Cioè: proprio non si capisce. Le incollo qualche esempio nelle pagine che seguono.

L’uso della pausa, del silenzio, di termini settoriali (tratti dalla scienza, dalla musica, dalla medicina) e il plurilinguismo hanno avuto una funzione importante nelle sue creazioni?

Mah, la peculiarità del lavoro pubblicitario consiste soprattutto nell’invenzione di titoli brevi o brevissimi, scanditi dalla punteggiatura, adeguatamente impaginati e accostati a un’immagine. Quindi, la scrittura finisce subito… certo, nei rari casi di titoli più lunghi, gli a capo diventano importantissimi.  Pause: ci sto attenta quando scrivo testi lunghi (per esempio un saggio, o un articolo). Termini settoriali: il meno possibile, e solo quelli davvero indispensabili. Precisione del linguaggio: sì, ci sto attenta. Plurilinguismo: mi è anche capitato di scrivere qualche buon titolo in inglese, ma di norma cerco di scrivere in decoroso e piacevole italiano.

Tra i poeti contemporanei, ci sono voci che ritiene più vicine alla sensibilità giocosa e ironica del suo lavoro, o preferisce invece stili più impegnati, tradizionali o addirittura classici?

Non sono una gran lettrice di poesia, ma adoro Wislawa Szymborska. Ricordo come se fosse oggi la prima volta che mi sono imbattuta in una sua composizione: era un lungo testo riprodotto sul muro bianco di una mostra fotografica, alla Triennale di Milano. Credo che fosse Amore a prima vista. È stato tanti anni fa, e Google non c’era ancora. Mi sono scritta su un kleenex il nome dell’autrice stando bene attenta a non sbagliare con quell’accrocco di consonanti esotiche. E sono andata a cercarmi i libri: una scoperta folgorante.

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