Letteratura

Animale: intervista a Giuseppe Nibali

17 Dicembre 2022

Animale (Italo Svevo, 2022) è un romanzo di scavo dentro le relazioni originarie, per provarne a misurare l’impatto sulle vite dei singoli, che a queste interconnessioni profondissime prendono parte; è un romanzo dove l’attraversamento del dolore si manifesta in tutta la sua complessità e ricchezza di sfumature, senza esclusioni di colpi, senza sconti perché, per uscire dalla sofferenza e cioè per affrontare la vita, dobbiamo riappropriarci della nostra nudità animalesca.

Ne parliamo con il suo autore, Giuseppe Nibali.

 

Animale

 

Un Giuseppe Nibali che scrive e un Giuseppe Nibali che viene scritto e non importa dove e se ci sia autobiografia. Piuttosto chiedersi se sia un artificio letterario, un gioco di specchi, un voluto caso di omonimia.

Perché questa sovrapposizione? Dove nasce, dove vuole portare?

Cara Alessandra, che piacere questa intervista con te. Credo che nel mio lavoro, sia in prosa che in poesia, siano presenti tutte le componenti che tu hai qui così splendidamente esposto. L’autofiction, che c’è ed è ribadita (in un climax finzionale) anche dalla noterella che ho deciso di inserire subito prima di iniziare la narrazione, mi piace condirla di elementi davvero biografici, come anche di componenti evidentemente false (penso alla nascita del Giuseppe protagonista in Emilia Romagna o alla totale assenza della madre) che possano essere sbugiardate già dalla biografia dell’autore, in quarta di copertina. Mi piace lavorare con la mia biografia perché credo si crei una pasta scritturale di difficile digestione per il lettore, quindi ricca di spaesamenti. Ma penso derivi anche da una mia particolare meraviglia nei confronti dei testi scritti: io, da lettore, pretendo di essere sconvolto, di essere inchiodato, di soffrire quasi e in questo solco forse rischio di esagerare, di costruire palazzi poco illuminati, se la metafora mi è consentita. Col romanzo non credo di aver percorso questa strada, noto anzi dalle dichiarazioni dei lettori che uno dei suoi meriti sia la capacità di essere letto molto velocemente. Però ecco: la biografia mia, quella vera, è davvero un’altra storia, non per forza meno colma di dolore. Je m’appelle Erik Satie comme tout le monde, o Walter Siti, come tutti e credo che sia una possibilità anche per gli eventuali romanzi futuri, quella di utilizzare un personaggio principale (o anche secondario) che abbia il mio nome e parte dei connotati fisici o caratteriali.

 

Giuseppe e Sergio, figlio e padre. Un rapporto archetipico, una relazione fondante, il nucleo del dolore.

Esiste un punto di incontro tra i due? È più facilmente ritrovabile in una stanza d’ospedale, in uno spasmo del respiro o in una parola lasciata uscire?

Niente è difficile come vivere la famiglia, la propria come quella degli altri. Credo sia un luogo di frustrazione grande, tenuto insieme dai collanti universali dell’affezione, della frequenza e delle convenzioni. Non sto parlando, sia chiaro, della famiglia di oggi contro l’idilliaca struttura familiare che tendiamo a porre sempre in un passato glorioso che non ha mai avuto luogo. Sto parlando dell’istituzione stessa della famiglia e della sua mentalità di clan. Sono molto vicino a quella folle bellissima idea del Platone nel libro VIII della Repubblica, quando parla di figli cresciuti dalla Polis, senza che nessuno ne riconosca la paternità e la maternità. Ma forse è proprio a partire dalla mia biografia che ho sensazioni del genere. Il mio testo si muove tra Conversazioni in Sicilia, Le pietre di Pantalica e Lo stadio di Wimbledon, con la catabasi descritta da Vittorini, l’aneddotica di Sergio che tanto ricorda i viaggi di Consolo in Sicilia e la solitudine del protagonista di Del Giudice, alla ricerca anche lui dell’eroe smarrito. È il personalissimo tentativo di una Telemachia che io so essere storicamente e politicamente impossibile, ma è al contempo la volontà di segnare una linea di demarcazione tra due generazioni completamente diverse. La stanza di ospedale, dove avviene il loro incontro, non è poi un vero luogo, almeno non nel senso che noi intendiamo. Spersonalizzante com’è, la stanza d’ospedale non fa che essere un acceleratore della loro socialità: in ospedale devi parlare col malato, devi assisterlo, devi, devi, devi. Per questo, col tempo, qualche parola vera tra le tante ordinarie, viene fuori a entrambi.

 

L’inizio di una poesia di Francesco Tomada, contenuta in Affrontare la gioia da soli (Samuele Editore – Pordenone Legge La gialla oro, 2021), recita: «Ho fatto da padre a mio padre / forse ci siamo invertiti di posto / per capire se almeno così / poteva funzionare»; mi sono tornati in mente questi versi quando tu, a pagina 65, scrivi: «Vuole che si capisca che ora è lui il padre di suo padre, e vuole mostrarlo nel modo più teatrale possibile. Vuole dimostrare di essere migliore di Sergio.»

È davvero possibile l’inversione, il giro di punta della freccia che segna la direzione delle cose, la consequenzialità dei rapporti-radice?

Ti rispondo, se posso, citando alcuni concetti che mi stanno particolarmente a cuore. Primo fra tutti, ovviamente, il concetto di evaporazione del padre, cruciale in un rapporto tra generazioni: i baby boomer, noi millennial e le generazioni zeta e alpha. Mi interessa molto il rapporto con il padre, la sua figura sociale e storica, la nascita e il declino delle società matriarcali (la madre è tanto presente in Scurau quanto insanamente assente in Animale) e di quelle patriarcali. Il padre contemporaneo mi sembra irreversibilmente avviato verso l’abbandono della sua posizione, una posizione che ormai mantiene da millenni. Ne parla Massimo Recalcati nel suo Il complesso di Telemaco, dove indaga la vera sindrome che avvolge la nostra generazione: il bisogno di una Telemachia, la ricerca continua del padre, a questo si inizia già ad opporre un metodo diverso che sarei portato a considerare una sorta di complesso di Issione per il rapporto che gli zoomer hanno con la Xenia, con l’ospitalità in senso greco e in questo contesto latu sensu, con la generazione dei padri. Sembrano non rispettare nessuna convenzione; si pongono ai “padri” in modo anti religioso, e trovo che questo sia molto interessante. Noi millennial siamo molto diversi. Continuamente io ho cercato l’adulto per avere un contrappunto critico, per una parola, per un gesto, perché tramite quel gesto potevo essere gratificato o assolto, era lo sguardo del padre (di ogni padre, vero o putativo) a identificarmi. Nel mio romanzo, invece, credo sia ciò che vediamo, senza troppo rimestare nella teoria: un Sergio inabile, stronzo, sì, ma danneggiato, un animale ferito che viene accudito da un Giuseppe che non è mai stato un vero figlio e che adesso si trova a essere un sostegno, appunto un padre, ma scimmiottando una grammatica che non ha mai davvero esperito.

 

In Scurau (Arcipelago Itaca, 2021), tua ultima pubblicazione in versi, l’asina viene maciullata, il coniglio scarnificato; qui, sempre avvolti da un’aura d’angoscia, maiali, squali e molti altri animali.

Chi sono? Chi è l’animale? Ha qualcosa a che fare con l’amore?

Credo davvero di essere ossessionato dall’elemento animale. Fin da piccolo l’esistenza animale mi affascina, mi porta a girovagare tra musei di storia naturale e zoo, tra parchi e birdwatching, ma credo che sia l’esistenza stessa della vita biologica a tormentarmi (e come potrebbe essere altrimenti?). Del comportamento animale mi interessa soprattutto il rapporto interno alle singole specie e le sue corrispondenze col comportamento umano. A costo di essere didascalico, credo che, leggendo le pagine dei miei due libri, si incontrino prevalentemente uomini imbestialiti e animali antropomorfizzati. Ma il centro del discorso è la bestialità, la naturalità, tutte cose che l’uomo rimuove dalla sua dieta quotidiana. È rimosso il sesso e con questo è stato rimosso l’amore, l’affezione è rimossa e tutto ciò che viene tolto dalla società è ovviamente, per contrasto, sempre mostrato, continuamente presente. Queste sono strategie di castrazione che sfuggono agli animali, ma che ossessionano e formano noi.

Per cui la pietà e il controllo mi inteneriscono negli animali e mi annoiano tra gli uomini e viceversa la bestialità è qualcosa che non smette di tormentarmi, tra gli umani.

Ma dentro il romanzo, animale è soprattutto il rapporto tra Sergio e Giuseppe, tra un padre che ha davvero vissuto, che pensava di poter entrare dialetticamente in contatto col suo tempo, e un figlio che vive invece per procura, guardando la costruzione delle altrui vite sui social. I due si ritrovano, ecco, ma quasi in un rapporto olfattivo dove è il sangue a parlare, molto più che la lingua.

 

Vorrei regalassi alle lettrici e ai lettori di «Gli Stati Generali» uno stralcio del tuo romanzo e ci salutassi dicendoci quali sono le prossime tappe dell’intenso tour di presentazioni con cui lo stai portando in giro per l’Italia.

Un ululato, poi un secondo e un terzo, poi ecco il coro. Viene fuori dal buio, non dà tregua. Solo non è seguito dai corpi, non entrano in scena i lupi. La prima voce è quella del capobranco, che ulula tre volte. È la sua la nota più intensa. Si potrebbe pensare che sia stato lasciato solo, che si lamenti, ma subito si capisce che quella solitudine significa rispetto. I lupi armonizzano l’ululato su quella nota, e sembra che siano molti, che siano più di loro stessi. Se il capobranco smette, è la chiusa del coro.

Altri secondi di nero, poi il buio si apre al colore dell’argilla. Arriva il giallo delle rovine. Si mostra uno scavo archeologico. Forse delicati reperti e nuovi tesori stanno emergendo, oppure le croste di un’epoca sparita. I latrati coprono tutto, è difficile capire: macerie umane, dall’alto, segnano il dorso di una creatura abissale. Appare così il corpo devastato della città. Quello che doveva essere stato un multipiano adesso è una grande scatola vuota in cemento e ferro, uno stomaco di trenta metri, senza porte né finestre.

Le auto che una volta lo ingrassavano sono sparite, risucchiate sul fondo dai bombardamenti. Dall’alto se ne intravede solo una, giallastra, resa irriconoscibile dalla sabbia che l’ha divorata. Poco distante, una costruzione recente che stona con il paesaggio. È elegante, geometrica, tirata su da non più di dieci anni. L’appartamento superiore, al terzo piano, è esploso, i due piani inferiori sono quasi completamente diroccati. In mezzo ai due edifici doveva esserci un bazar, il tendone ha resistito finché ha potuto, poi ha ceduto sotto il peso delle macerie, e adesso se ne sta sulla strada, come un circo crollato sul pubblico. Una nuova via. Una nuova via è nata tra gli scheletri delle case.

Gli ululati continuano mentre il drone procede veloce. Inquadra un altro palazzo, forse un con- dominio, sulla destra. È enorme. Sul tetto c’è un tavolo e accanto ci sono cacti e piante cresciute tra le macerie. Ancora un edificio, il più grande ripreso finora. I calcinacci e la sabbia ne hanno sigillato le finestre, la bomba che lo ha sventrato è caduta perpendicolare, ha incrinato le vertebre di ferro che lo reggevano, così il palazzone è crollato sul fianco e poi è rimasto ad agonizzare. Cambia l’inquadratura. Il drone si è sposta- to sulla strada principale. Su quella che era la strada principale e che adesso è calcestruzzo. Ci camminano gli uomini, se ne contano cinque, paiono formiche, le loro ombre sono macchie nere che si allungano al sole e spariscono dentro le case. Hanno paura di altri crolli, per questo si sparpagliano sul disastro.

Gli ululati non smettono, per tutto il video van- no e vengono senza mai tacere. Si possono qua- si immaginare, i lupi. Un branco intero: quattro, sei esemplari. Le loro urla riecheggiano nelle orecchie degli uomini che setacciano la città, accanto alle palme, dentro i rimorchi dei camion, attentissimi a non cadere nei crateri colmi di acqua colore acido.

Il drone prosegue per poi spegnersi nel buio. Il canto degli uccelli del paradiso sovrasta il branco, prendendone il posto. Lo schermo del telefono ritorna nero e compare la scritta: Animale, Aleppo est, 2016, seguita dai titoli di coda.

Chi ha montato il video è uno bravo, ha occhio e orecchio per il poetico, pensa Giuseppe, ma non ha immediatezza, il suo lavoro può annoiare, soprattutto se lo spot integrale dura più di due minuti. Questo pensa, e altre cose, mentre alza lo sguardo e dal finestrino coglie l’ultimo sole di un pomeriggio di novembre che sparisce dietro la stazione di servizio di Galdo, dove il pullman ha fatto una sosta. Ha preso un panino all’autogrill Tevere Ovest, cinque ore prima, ma la cotoletta gli ha fatto male, così adesso non ha voglia nemmeno di scendere per andare a pisciare.

Il corridoio è illuminato, i suoi compagni di viaggio cominciano ad affollarlo mentre indossano i giubbotti. Durante il tragitto, nessuna schermaglia, nessuna ressa. Hanno sempre parlato tra loro a bassa voce, come se ci fosse un segreto da passarsi e custodire, un segreto che Giuseppe non poteva conoscere. Circa la metà è scesa tra Firenze e Napoli. Nessuno di quelli rimasti, pensa, toccherà le coste della Sicilia, si sparpaglieranno via via, tra Rosarno e Villa San Giovanni.

Il pullman riparte dopo neanche venti minuti. Tra poco saranno a Cosenza, e da lì una serie di tunnel e di gallerie che ulcerano la Calabria fino al mare. E oltre l’abisso, l’isola.

Sta andando da suo padre. Finalmente potrà entrargli dentro la testa, scavare tra le macerie, separare le parti vive da quelle morte. Il buio vuole cercare, quello che la distanza ha covato, e che l’ictus ha poi reso libero.

Il telefono è quasi scarico e le prese non funzionano. Gli rimane il dieci per cento di batteria, si spegnerà prima di arrivare in Sicilia. Anche questa è una cosa che pensa insieme alle altre, mentre fa partire di nuovo il video, per risentire gli ululati cedere il passo al cinguettio degli uccelli, e rivedere Aleppo, ancora una volta, con le sue crepe e le sue buche, e quindi il buio che si porta via la città distrutta.

 

Il tour di presentazioni toccherà nuovamente Milano e poi Roma, Trento e Bolzano: sulle mie pagine social tutti gli aggiornamenti.

 

Giuseppe Nibali
Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Si è laureato in Lettere Moderne e in Italianistica a Bologna dove è stato membro del Consiglio Direttivo Centro di Poesia Contemporanea dell’Università. Giornalista Pubblicista, è direttore responsabile di Poesia del nostro tempo e curatore del progetto Ultima. Collabora con Le Parole e le cose, La Balena bianca e con il magazine Treccani. Ha pubblicato i libri di poesia: Come dio su tre croci (Edizioni AE, 2013), e Scurau (Arcipelago Itaca, 2021).
Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.