Famiglia
Amleto tra Petrolini e Kurt Cobain
Che buffo, giusto un secolo fa, Ettore Petrolini metteva in parodia, da par suo, nientemeno che Amleto: “Io sono il pallido prence danese/Che parla solo, che veste a nero/Che si diverte nelle contese/che per diporto va al cimitero/Se giuoco a carte fo il solitario” eccetera eccetera.
E, per strana, inattesa coincidenza, in un teatrino romano, un giovane attore di Roma, Gabriele Paolocà, attraversa il classico shakespeariano, riversando con esplosiva ironia, in un monologo aspro e divertente, commovente e disarmante, tutte le contraddizioni di questi anni bui.
Non è un caso, allora, che lo spettacolo di Paolocà, dal titolo AmletoFX, (qualcosa come “Effetti Amleto”) mi abbia fatto pensare al grande genio di Petrolini. Di fatto, dentro le complessità del “pallido prence” c’è di tutto. Come scriveva Harold Bloom, Shakespeare ha inventato l’uomo moderno, e Amleto – con i suoi eterni dubbi, l’incapacità all’azione, il senso di colpa, la confusione in amore – ne è una prima, significativa rappresentazione.
Il 900, ricorda il critico Oliviero Ponte di Pino, è stato davvero “il secolo Amleto”, quello in cui tutti i grandi artisti, prima o poi, si sono confrontati con la tragedia: dal 1899 con Sarah Bernhardt en travestie, al 1999 con gli Oscar a quel filmaccio di Shakespeare in love. In mezzo c’è davvero tutto e il contrario di tutto: Amleto è esploso, è diventato un pentagramma su cui scrivere note stonate, un personaggio in cui concentrare (e conciliare) gli opposti. Ne abbiamo visti tanti, in scena, anche recentemente, diversi per taglio, approccio, contesto: chi ne faceva una questione squisitamente teatrale, chi la buttava in politica, chi parlava dal punto di vista di Ofelia, e chi, ancora focalizzava l’attenzione sulla dialettica generazionale.
L’ottimo autore-regista-interprete solista Paolocà sceglie di mettere in scena, argutamente, un precipitato del nostro tempo, allestisce una dissacrante concrezione, elaborata da un possibile coetaneo del Principe di Danimarca, alle prese – come lui – con i sogni, i miti, le aspirazioni, gli amici, gli amori.
Un giovane come tanti, frullato di cultura e citazioni, di aspirazioni e delusioni, ma soprattutto annichilito dall’eterno “fantasma del padre”. Il nodo, infatti, è proprio quello che si stringe attorno alla gola di Gabriele-Amleto come di una generazione intera, oppressa da padri (metaforici e reali) assenti eppure prepotenti in questa assenza, comunque desiderati, rimpianti, compianti da figli che chiamano “papà” con un grido di malcelato dolore.
Seguendo il ragionamento di Bruno Moroncini, nel suo Lacan politico (Cronopio), vien da dire che si avverte «una certa nostalgia del padre, la cui autorità rappresenterebbe l’unico argine alle spinte alla dissoluzione». AmletoFX dunque abbraccia nostalgia e devastazione, la mostra e la smaschera in scena.
All’interno della stagione del Teatro Orologio di Roma, Gabriele Paolocà colloca il personaggio shakespeariano nel novero dei “devastati” miti d’oggi, cari a Roland Barthes: si presenta in giubba nera e con una parrucca che richiama immediatamente l’iconica pettinatura di Amy Whinehouse; poi stride la voce recitando San Lorenzo di Pascoli; indossa il candido vestito di Marylin con regolamentare parrucca biondo platino; ancora intona i versi shakesperiani sulla falsariga di Kurt Cobain; arriva a mettere in mezzo alla cameretta di Van Gogh, che fa da fondale, anche Robin Williams e un passo delle Ceneri di Gramsci rivolto a Ofelia, che risuona, decontestualizzato, quasi surreale.
In questo “club di suicidi doc”, il vivacissimo racconto è interpolato da chat bassoromanesche, dà spazio alla coppia Rosencratz e Guildestern che sembra uscita dalla Curva Sud, spara il famoso teschio di Yorik sullo schermo del Mac, invoca Nanni Moretti e chiude in una struggente versione di Vedrai vedrai di Luigi Tenco. Lo spettacolo, prodotto dalla compagnia Vico Quarto Mazzini (di cui Paolocà è fondatore e anima) con Progetto Goldstein e dallo stesso Teatro dell’Orologio, è ancora acerbo e deve essere ulteriormente assestato, ma respira di un sincretismo, superficiale e profondissimo, tutt’altro che postmoderno. Qui si avverte la fatica di Sisifo di chi deve combattere per imbastirsi uno straccio d’identità, per sopravvivere sognando in una città sfranta e incarognita, in un Paese involgarito, in un mondo disilluso. Guardarsi attorno ferocemente, per cercare risposte che non arrivano: non resta che (sor)ridere, dietro a quei suicidi modello, non resta che buttarla in parodia quando non ci sono certezze. Meglio tornare a Petrolini, al suo ghigno quando chiedeva: «Ma si può essere più disgraziati di Amleto? Ma che voleva Amleto?»
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