Letteratura
“Alla linea” di Joseph Ponthus, il ritorno del classico
Sono davvero pochi i libri che possono essere definiti, già alla loro uscita, dei classici. Classico implica un grado di universalità, di originalità e di personalità capace di emergere dalla penna difficilmente raggiungibili contemporaneamente in una stessa opera. “Alla linea” di Joseph Ponthus, edito in Italia da Bompiani, nasce classico fin dalle sue prime pagine. Definirlo romanzo è improprio, poema altrettanto. Lo si potrebbe chiamare poema in prosa o un lungo flusso di coscienza in prosa poetica. Definirne la forma non è un semplice esercizio: lo stile di questo testo rappresenta un’importante parte della sua sostanza. Ponthus racconta la vita di fabbrica e lo fa a partire dallo sguardo, in prima persona, del lavoratore interinale, moderno proletario senza prole, ma di alti studi, costretto a passare da una catena all’altra, da un incarico all’altro, per sbarcare il lunario in un’epoca in cui le professioni d’intelletto non pagano. Nel farlo ci accompagna attraverso le sue giornate, tutte identiche eppure capaci di suggerire pensieri, canzoni, forme di immaginario e di evasione sempre differenti. Le settimane che si susseguono fra una chiamata in servizio e l’altra, i fine settimana in cui la stanchezza rende quasi impossibile pensare ad altro se non a riposarsi, la famiglia amata e osservata da lontano, in un letto condiviso in silenzio, in una breve telefonata, perché i ritmi di vita non coincidono, il tempo non aiuta.
Come finestre che si aprono, nel generale flusso descrittivo, emergono riflessioni letterarie e poetiche, riferimenti alla formazione umanistica del protagonista, frammenti di critica sociale, spunti di attualità. Nulla però è didascalico: siamo molto lontani dal romanzo di denuncia, così come da una rilettura romantica del lavoro di catena. Amore e odio, disprezzo e affezione si mescolano in un racconto di testimonianza, che non ha la pretesa di insegnare nulla al lettore.
Con uno stile folgorante, essenziale e intensissimo, Ponthus restituisce un affresco di vita di chi, spesso, non prende la parola o lo fa in una dichiarazione per la stampa, in un reportage di cronaca. La forma estremamente ricercata, poetica, rende invece “Alla linea” una sorta di poema contemporaneo in cui l’eroe, “uomo dalle mille risorse” di omerica memoria, sfida un universo ostile che, solo per la grande distanza che lo divide dalla percezione pop quotidiana, può sembrare superato, modernizzato. La fabbrica rimane la fabbrica, racconta l’autore, nonostante il progresso, nonostante la tecnologia. I rapporti umani, la relazione con i corpi, con la fatica, con la ripetitività è la stessa. Qualcuno non ce la fa e cede di fronte alla forza della linea, altri resistono, ciascuno aggrappato alla sua personale motivazione. Per il nostro protagonista sono i soldi all’inizio, ma poco alla volta trova spazio un senso di sfida nei confronti del sistema fabbrica, una sfida che è possibile vincere sacrificando la scrittura al sonno, ma solo e soltanto perché gli anni di formazione, di lettura, di riflessione, gli hanno dato gli strumenti per rimanere saldo anche davanti alla catena di montaggio.
Nel quadro di varia umanità che emerge dal racconto i personaggi emergono singolarmente e come entità, nel racconto corale operaio. In un’epoca che sembra aver dimenticato il senso e il valore del lavoro, tornato per molti a essere un privilegio e non un diritto necessario per una vita dignitosa, Ponthus interroga e suggerisce, riporta fedelmente e innalza, seziona con occhio clinico e spietato ogni singolo elemento della routine della fabbrica e lo restituisce al lettore con una forma altissima, pura ed essenziale.
Questo suo primo e unico romanzo – l’autore è precocemente scomparso nel 2021 – è il libro da leggere quest’anno, anche e soprattutto se dovesse essere l’unico in lettura. Un testo imprescindibile che racconta tutta la durezza del lavoro precario, la sacralizza, le restituisce dignità e spessore storico, la rende immortale.
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