Letteratura

Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro

18 Marzo 2016

Qual è l’ultima volta che avete comprato un biglietto del treno allo sportello invece di farlo online? O un cd in un negozio di dischi? O che avete messo piede in banca? Non siete i soli. Il risultato individuale è una maggiore convenienza immediata, quello collettivo è la fine di quei lavori. È una schizofrenia che ci riguarda tutti. Le macchine hanno sempre rimpiazzato gli uomini. Prima però lo facevano nei compiti pesanti, colpendo i colletti blu. Ora sostituiscono il lavoro dei colletti bianchi. In passato l’aumento della produttività dato dalla tecnologia si trasformava in piú ricchezza per la società: se uno perdeva il lavoro in manifattura ne trovava un altro nei servizi. Ormai le macchine corrono troppo forte e distruggono piú posti di quanti non riescano a creare. Web e robot, dunque, dopo globalizzazione e finanza, stanno uccidendo la classe media. Perché piú le macchine diventano a buon mercato, piú gli esseri umani sembrano cari in confronto. Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro (Passaggi Einaudi), di Riccardo Staglianò, è un viaggio in un futuro che è già arrivato, a cui stiamo pagando un prezzo cruento, ma dall’esito non inevitabile. Pubblichiamo una parte del prologo.

La stazione Termini è irriconoscibile. Dei ventiquattro sportelli di una volta, con le loro immancabili appendici di viaggiatori in attesa, ne sopravvivono sedici. Al posto di quelli mancanti, da cui hanno staccato i numeri progressivi in una specie di velleitaria cosmesi dell’avvenuto cambiamento, è spuntata una dozzina di biglietterie self-service. Tutto intorno, nell’atrio principale e nei passaggi verso i binari, le macchinette automatiche si sono moltiplicate come cellule impazzite. Quando è successo, esattamente? A forza di passarci davanti accade come con i figli, che non ti accorgi che si sono alzati di cinque centimetri fino a quando qualche estraneo non te lo fa notare. Allora ho chiesto a Trenitalia che non mi ha fornito una data puntuale, parlando invece di un «percorso verso modalità nuove e disintermediate». Però un numero preciso me l’ha dato: centoquattro, intendendo i chioschi automatici. Aggiungendo poi che gli sportellisti mancanti sono stati compensati da personale che, uscito dai gabbiotti di vetro e dagli uffici, ora «sta a diretto contatto con la Clientela, per coglierne più da vicino esigenze e bisogni». Un sindacalista della Cgil a cui avevo posto le stesse domande mi ha detto invece che quelle persone sono uscite come pensionati e non sono state rimpiazzate (per onestà è lo stesso cui risultava un censimento di self-service desolantemente fermo a un quarto del dato reale). Il dato meno scontato riguarda la produttività. Una macchinetta emette in media circa 500 biglietti al giorno e può costare, manutenzione inclusa, «qualche decina di migliaia di euro». Un bigliettaio umano, in un turno, ne emette circa 200 e costa almeno il doppio ogni anno. Su chi puntereste voi, se l’unica bussola fosse il risparmio? […]

Tra tutti i posti da dove potevo cominciare può sembrare deludentemente modesto che lo faccia da qui. Per scrivere Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro ho preso una dozzina di voli per un totale quasi sicuramente al ribasso di centomila chilometri. Avrei dunque potuto scegliere tra le più esotiche Silicon Valley o il deserto del Nevada, il Texas o New York, invece la scena iniziale si svolge a poche centinaia di metri dalla casa dove abito. Il senso è che voglio che si capisca subito che i reportage che seguiranno, anche quando raccontano di anteprime di futuro avvistate in luoghi remoti, narrano di noi. Se vi fa stare più tranquilli fate pure una piccola tara del tempo che servirà prima che il robot-oncologo di Watson dallo Sloan Kettering Memorial Hospital arrivi nelle nostre corsie o che il software-giornalista di Narrative Science da Chicago sbarchi nelle nostre redazioni, ma non ingannatevi. Stanno arrivando. Sono tra noi. .[..]

Immagino la reazione di alcuni di voi. Benvenuto sul pianeta Terra: questa è la storia del mondo dalla prima rivoluzione industriale a oggi! Certo, è arrivata voce anche a me. Lo schema era semplice e, grossomodo, prevedeva che se perdevi un lavoro nei campi per colpa di un aratro, dopo un po’ ne trovavi un altro in fabbrica che proprio la ricchezza supplementare prodotta dagli aratri aveva creato. Oggi, è la tesi di questo libro, non funziona più così. Perché le macchine, dopo aver sostituito i colletti blu, i lavori di fatica che generalmente (crisi permettendo) non rimpiangiamo, rimpiazzano anche i colletti bianchi, i mestieri intellettuali che volentieri terremmo per noi. Ieri erano in grado solo di fare le braccia, oggi anche il cervello. Così se perdi il lavoro in manifattura puoi scoprire con orrore che anche nei servizi non c’è più posto perché, dicono, un algoritmo risponde alle chiamate più e meglio di una centralinista in carne e ossa. Neppure il fatto di appartenere alle vecchie élite delle professioni cognitive ti mette più veramente al riparo. Medici, avvocati, giornalisti, analisti finanziari, professori universitari: There’s an app for that! È l’allarme che, con accenti diversi, danno da qualche tempo i migliori economisti del mondo. Ed è il tema di cui dovrebbero occuparsi senza sosta i politici (e i sindacalisti) di ogni latitudine. Perché un futuro senza lavoro è una distopia che non ci possiamo permettere. Va bene come materia prima per Suonatore di pianoforte, il romanzo in cui Kurt Vonnegut prefigurava una società in cui il supercomputer Epicac XIV prendeva tutte le decisioni mentre gli ingegneri erano diventati i suoi umili servitori. Il resto della gente, emendata dal lavoro, restava in casa a ingannare il tempo, guardando la televisione o «scopando come conigli». Come tristemente noto, la tv oggi è quel che è. E la robotica, con sex dolls tipo Realbotix, non risparmieranno neppure la seconda opzione. Tocca inventarsi qualcosa di meglio.

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