Letteratura
Addio a Sepúlveda, il cantastorie che odiava la cronaca
Aveva scelto come casa le Asturie, la regione del Nord della Spagna che, con i suoi prati verdissimi a picco su una costa rocciosa, attaccata dalle onde del mare torbido e agitato, gli ricordava il Cile della sua infanzia. Luis Sepúlveda Calfucura se ne è andato in un letto dell’Hospital Clinic dell’Università di Oviedo, dopo che a fine febbraio, rientrando a Madrid da un viaggio in Portogallo, era risultato positivo al Covid-19, con sintomi di polmonite.
Quanto è curiosa la vita, anche per chi è abituato a inventarne di più strane. Sepúlveda è sopravvissuto ai potenti e ghiacciati getti d’acqua che le baleniere assassine giapponesi gli hanno sparato in faccia per quasi cinque anni, su una nave di Greenpeace, combattendo, come era stato guerriero davvero, per salvare le innocue e innocenti balene dagli arpioni di qui mezzi uomini nipponici vogliosi di sushi e denaro. È sopravvissuto a quasi tre anni di prigionia con l’opzione tortura dei ceffi balordi di Pinochet, che lui aveva combattuto coi famosi guerrieri di Santiago che fecero vedere l’inferno agli uomini del caudillo sudamericano. In Nicaragua è persino sopravvissuto, senza nemmeno un graffio, ai proiettili calibro 55 delle mitragliatrici nella guerriglia assieme al Fronte sandinista di liberazione nazionale o FSLN (Frente sandinista de liberación nacional) per scardinare dal potere Anastasio Somoza Debayle. E che dire delle tremende zanzare formato Godzilla del’Amazzonia? Tutte esperienze che furono il carburante d’idee della sua letteratura.
Luis Sepúlveda era nato a Ovalle, Cile nel 1949 e dopo aver viaggiato molto e vissuto in Uruguay, Paraguay, Ecuador, Bolivia, Brasile, Francia e Germania si era stabilito in Spagna nelle Asturie.
Sepúlveda amava la Spagna e l’Italia, dopo il Cile dove aveva scelto di non vivere più. Era vissuto in Uruguay, Paraguay, Ecuador, Brasile e Nicaragua, per settimane, mesi, anni, poi in Francia, Germania e Spagna, rincorrendo il suo senso universale di giustizia, litigando coi compañeros, coi genitori, con gli editori, con tutti. Abbracciando gli ultimi Indios dimenticati e poveri, ma in pace con loro stessi, lottando per i più poveri ed emarginati della Terra. Era un po’ burbero, iracondo e molto silenzioso. Non lo aiutava, di certo il suo carattere sposato alla polemica. Qualsiasi cosa che toccasse le sue idee, lo accendeva come un falò. Sepúlveda è stato molte storie. Scrittore giovanissimo e inedito tacciato di pornografia, studente turbolento e consapevole del baratro sociale del suo Paese, esule politico, guerrigliero, ecologista, viaggiatore, giornalista, regista e sceneggiatore. E soprattutto scrittore.
Era un inventore di storie, di aneddoti, tutti deliziosi, che lasciava in coda, come una repentina, grattata di tartufo al lettore, mai sazio del suo racconto che sembrava sempre distante dalla cronaca, pur sempre avvitato alla realtà. Lui zingaro ad horem, con i buchi nelle suole, inventava ogni parola, pur avendo un bagaglio di cronache personali da leggenda. Personaggi, picari, nomadi, zingari, perdenti, ubriaconi, perditempo senza una meta, ma anche guerrieri Indios fieri, guerriglieri generosi, mossi dalla giusta passione, dalla giusta causa, quella che certe notti non ti fa dormire. La sua scrittura era semplice, minima, non agitata dalla febbrile fantasia di Marquez. Lineare, concisa, ma i suoi personaggi erano indimenticabili, descritti con raffinata attenzione. Come tanti piccoli pezzetti ritagliati dal suo carattere. Esule politico, guerrigliero, ecologista, viaggiatore dal passo ostinato e contrario. Capace di disarmare una baleniera con un arpione, così come un sogno armato di penna.
Amava troppo la Spagna che gli aveva dato fama e denaro, proteggendolo e coccolandolo, celebrandolo come fosse un vero, autentico autore spagnolo. Lui, col suo viso da antico e fiero guerriero Inca un po’ suonato, dopo una vita da leone, cercava un lembo di pace co suo Panama bianco in testa, seduto su una panchina al Parque del Retiro di Madrid, immerso nei regali di una splendida mattina di maggio.
Bastava un nuovo, pregiato, aneddoto della sua vita, per accendere un’intervista e mettere fuoristrada il lettore che credeva, da stolto, di sapere già tutto di lui. Non aveva il dono ipnotico della scrittura, aveva soltanto il talento del cantastorie che inventava favole amare e dolci, vedi Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. Il fil rouge dei suoi racconti, era la vita e la morte, il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia, la ricchezza e la povertà. Per scrivere e inventare così, aveva dovuto, prima, vivere tanto, anche troppo. Viaggiare in tutto il Sud America, dividere una tenda e il pranzo in Amazzonia, cenare con una scatola di tonno su una nave dentro la tempesta artica. E dal so denso vissuto erano nati i suoi personaggi, impregnati della sua esistenza, soprattutto dei suoi ideali, del suo percorso doloroso e consapevole di nomade, dannato a viaggiare in eterno. Senza un perché, come un picaro, autoesiliatosi dalla patria.
Ne Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, il suo primo romanzo del 1989, c’era l’antipasto della sua già lunga esistenza alle spalle. Quei leggendari sette mesi nella foresta amazzonica assieme agli indios Shuar. Dopo quasi tre anni di prigione, era fuggito con l’Unesco per intervistare i nativi d’America e comprendere quanto male i bianchi avessero loro fatto. Il suo libro più militante e politico, La frontiera scomparsa, è una raccolta di racconti, tutti legati tra loro perché parlano della stessa persona, come fosse un romanzo a puntate, forse pensato per una serie tv ante Netflix: un cileno che come lui fugge dal Cile devastato dalla dittatura. Attraversa a piedi, in treno, in autostop e su bus rabberciati col nastro il Cono Sur, della Pampas argentina, alle montagne boliviane, al Perù, l’Ecuador, la Colombia. Poi arrivato Panama si imbarca per la Spagna, per il Vecchio Mondo.
Era uno scrittore che aveva deciso di esserlo, soltanto dopo i suoi primi quarant’anni di vita, quando era già sufficientemente saturo di esperienze. E aveva la maturità per condividerle. Scrivere a vent’anni sarebbe stato per lui, come andare dallo psicologo e analizzare il suo diario segreto e infantile. Un gesto troppo presuntuoso. Una psicoletteratura che detestava, giovane, impetuosa, sbagliata. Il dolore è esperienza, la rabbia non ha un’adolescenza, la fantasia va dosata come lo zucchero. L’antitesi delle sublimi invenzioni oniriche di Garcia Marquez, cui, credo adorasse di nascosto, ma senza troppo contraddire la sua natura realista. La sua vita è stato il suo miglior romanzo. Perché Sepulveda trasformava i momenti della suo percorso esistenziale in letteratura pura, semplice ma vibrante. Onesta, non barocca. Avrebbe detto Ernest Hemingway, amante della prosa asciutta.
La lampada di Aladino rappresenta una fetta molto insaporita della sua vita da picaro. Sono i tempi delle lotte studentesche, dell’esilio, dei ricordi scomodi e dei ritrovi a distanza nel tempo di amici e amori. In questo romanzo, adorabile, si racconta l’amore, il suo, quello per la poetessa Carmen Yáñez, donna che ha influenzato molto il suo lavoro, un po’ come Yoko Ono con John Lennon, che però, si dimostrò debole e soggiogato a una strega senza talento. Carmencita fu un’iniezione di vita, invece, l’equivalente nell’infilare due dita nella presa elettrica. Un nome da torero ne è la prova, di quanto Sepúlveda innamorato, risultasse più rilassato nella scrittura, sotto l’effetto del cherubino con arco e frecce. Si racconta la storia di Juan Belmonte che divide il nome col celebre torero spagnolo citato da Hemingway in Fiesta. Il vero torero si fece saltare il cervello con una Smith&Wesson nel 1962, a settant’anni, mentre il Belmonte fittizio dello scrittore cileno, visse sulla carta l’amore, il nazismo, l’avventura a caccia di un tesoro da rubare. Forse Steven Spielberg si ispirò a Belmonte di Sepúlveda per il suo Indiana Jones, ci sono troppe somiglianze. E, poi, tanti altri romanzi, inutile elencarli, tutti facili da leggere in un colpo solo, lasciando perdere le proprie fedi politiche, vaccinandosi contro la critica ideologica e abbandonandosi nelle mani, forse, dell’ultimo cantastorie latino, come attualmente Bob Dylan e Bruce Springsteen sono, per la mosca folk, i cantastorie americani.
Ho conosciuto personalmente Luis Sepúlveda durante una festa di Santa Jordi a Barcellona. Penso fosse il 2008. Per chi non è pratico di cose catalane, è la festa dell’amatissimo protettore della Catalogna, il Santo Giorgio cristiano, guerriero nobile che trafisse il drago cattivo, per farla breve. Non si sa come, a parte per le rose rosse, simbolo dei fiotti di sangue fuoriusciti dal collo del drago sotto i fendenti di Jordi, la città ogni 23 aprile si riempie di decine di bancarelle che vendono libri. La tradizione, infatti, vuole che tu uomo debba regalare a una donna, che sia tua madre, fidanzata, amante, sorella, nonna, una rosa rossa, mentre lei ricambia il gesto con un libro. Per tal motivo molti famosi scrittori ispanici e spagnoli convergono su Barcellona. In quell’aprile di tanti anni fa c’era anche Sepúlveda che mi firmò una copia del suo primo romanzo. Mi parlò in uno zoppicante ma corretto italiano, alternando sbuffi di Cohiba, i sigari che fumava anche Che Guevara. Aveva una camicia bianca e un giubottino verde militare senza maniche, tipo quelli da pescatore, con la pancia che premeva contro la cerniera. Fu difficile immaginarlo tra i guerrieri sandinisti, sembrava più che altro un orsacchione con lo sguardo saggio del professore di Lettere prossimo alla pensione. Mi confermò il suo amore per l’Italia, dove avrebbe voluto vivere per un po’. Ma ora che era famoso anche a casa nostra, lo fermavano sempre per la strada o nei bar. Lui rimaneva sempre sorpreso. Come se non sapeva di fare il lavoro più bello del mondo.
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