Letteratura

Addio a Elie Wiesel: il rapporto inquieto tra oblio e memoria

3 Luglio 2016

«Il carnefice uccide sempre due volte. La seconda con l’oblio». È una frase di Elie Wiesel che che sarebbe facile fraintendere. Credo che il rapporto tra memoria e oblio nella sua scrittura, sia più complicato rispetto a quanto questa frase sembrerebbe suggerire.

La morte di Elie Wiesel a 87 anni forse più di altre segna il passaggio generazionale dai testimoni diretti a quelli che ne ereditano il racconto. È l’osservazione più banale e ovvia che si può fare.

Ci sarà tempo modo di entrare nella vasta produzione letteraria, saggistica, memorialistica, in breve e più generalmente nella dimensione pubblica che ha caratterizzato la riflessione di Elie Wiesel a partire dalla pubblicazione , nel 1958 del suo primo testo, La nuit ( in Italia uscirà 22 anni dopo, nel 1980, e sarà il titolo di apertura dell’editore Giuntina, a suo modo un manifesto).

Il tema su cui è automatico riflettere riferendosi a Elie Wiesel è quello della memoria . del racconto testimoniale, ma si potrebbe dire preliminarmente delle retoriche, delle parole, delle metafore che si usano quando si evoca la fine del proprio mondo – un tema che più recentemente è stato proposto con una grande scrittura da Wlodek Goldkorn con il  suo Il bambino nella neve (Feltrinelli).

Credo però che nel momento del passaggio testimoniale il tema su cui dobbiamo concentrare l’attenzione sia quello della problematicità del racconto di testimonianza.

Per venticinque anni lo storico Pierre Vidal-Naquet è tornato con insistenza a scrivere sul tema del genocidio ebraico per opera del nazismo nonché dei tentativi di Robert Faurisson e di molti altri di affermare l’inesistenza dello sterminio. Il suo obiettivo è da una parte dimostrare la falsità delle tesi negazioniste, dall’altra comprendere la loro forza retorica e dunque individuare attraverso quali meccanismi e stravolgimenti quelle possano essere credute. “Coloro che pretendono di negare l’esistenza del Genocidio ebraico – scrive Piere Vidal-Naquet a proposito di Robert Faurisson – cercano di colpire ciascuno di noi nella propria memoria individuale . Questa memoria non è la storia. Ma la storia è fatta anche dell’intreccio tra le nostre memorie e la memoria dei testimoni”. (Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008, p. 224).

Credo che questa suggestione di Pierre Vidal-Naquet, per molti aspetti lontano da Elie Wiesel, costituisca una chiave di ingresso saliente per provare a prendere la misura con lui.

È un tema su cui  Wiesel è intervenuto varie volte, ma soprattutto in un testo che ha avuto scarsa eco che qui vorrei considerare. Il testo si intitola L’oublié. Lo pubblica Seuil nel 1989. In Italia esce per Bompiani nel 1991.

Oblio si presta a vari livelli di lettura, non ultimo, forse, il depistaggio a cui il lettore è indotto dal titolo stesso. Intanto, in breve, la vicenda. Un uomo anziano (Elhanan) e il suo segreto/incubo (una scena di stupro a cui ha assistito durante la sua milizia partigiana e che è stato incapace di impedire) sono i due partners che tengono in piedi la lunga trama. In mezzo un’operazione faticosa di rimemorizzazione che da solo l’uomo non riesce più a compiere. Si impone così un intermediario – il figlio (Malkiel) – che ha la funzione maieutica di ricomporre tutte le tessere del quadro che non riescono più a collocarsi nei contorni definiti della biografia.

A rendere più arduo questo percorso una lenta malattia di Elhanan che agisce da lenta vernice occultante e cancellante della memoria. La memoria del vecchio si ritrae e per estrarre tutto ciò che è possibile egli deve cominciare a parlare senza preoccuparsi dell’ordine in cui riaffiorano i ricordi. Il fine primo è quello di sottrarre dal definitivo affondamento quanti più elementi possibile. L’ordine, la trama, verrà dopo. Si accavallano così in un continuo movimento avanti/indietro il presente e il passato, il progredire della malattia e la corsa contro il tempo per estrarre quanti più segmenti di passato. La propria milizia partigiana, la famiglia, l’amore per la moglie morta di parto, la distruzione della propria famiglia, la guerra di indipendenza di Israele, l’assedio di Gerusalemme del 1948, il lento recupero della propria stabilità psichica a New York, sono tutti brandelli che si specchiano l’un l’altro in quel triangolo della morte/vita rappresentato da Fehrfalu (il paese ungherese di provenienza)-Gerusalemme-New York, le tappe di questa continua peregrinazione. Ma anche così la storia la storia non riesce a trovare il suo capo.

Da rimemorizzazione il procedimento narrativo si trasforma in percorso indiziario nel luogo in cui si è prodotto quell’evento che ha segnato così fortemente la vita interiore del vecchio Elhanan. E così è il figlio – primo segno del passaggio/eredità della memoria – a dover partire da New York e farsi “detective”, per raccogliere compiutamente e coscientemente un’eredità a lungo rimossa, ma che ora si interpone nei ricordi del vecchio padre.

Ritrovare quella donna – alla fine l’incontro avverrà, ma forse quel dialogo e soprattutto il suo esito sono tra le pagine più deboli del romanzo – è l’artificio letterario per ricostruire la biografia collettiva non solo del vecchio, ma anche di un paese popolato da individui insoliti e da figure simbolo: un becchino ubriacone – icona del passato custodito e “conservato”, un predicatore cieco, forse la figura drammatica più riuscita del romanzo, una donna che gli fà da guida ma alla quale non sa se ritrarsi o aprirsi, un oste troppo curioso (ma gli osti, da Manzoni in poi, non hanno mai goduto della simpatia degli scrittori). Il ritrovamento di questo tassello non permetterà al vecchio di interrompere la sua progressiva perdita di memoria, ma è il viatico perché a suo figlio sia possibile continuarla.

Fin qui la storia.

Ma a voler interrogare il testo emergono elementi meno scontati di quelli a cui la semplice trama rinvia. Ne consideriamo uno, ossia il binomio oblio/memoria. A una lettura superficiale del testo si è indotti a ritenere che tutta la narrazione induca ad accogliere il principio che l’oblio è il nemico da battere: un ricordo o la perdita di senso della vita. Ma improvvisamente si assiste a un cambio di registro. E’ la donna stuprata a determinarlo: per lei dimenticare è stato l’unico modo per sopravvivere. E allora l’oblio che cos’è: una maledizione o un beneficio del tempo? Per Wiesel è certo il primo corno dell’alternativa, ciò nonostante la sua scelta non implica il rifiuto dell’oblio.

“Grazie a lei – le risponde Malkiel – sono venuto a sapere qualcosa di utile e forse di essenziale: anche l’oblio fa parte del mistero. Le ha bisogno di dimenticare e la capisco; io, invece, devo combattere l’oblio, cerchi anche lei di capirmi” (p.249).

Si stabilisce così un territorio neutro in cui starebbe l’oblio, ovvero una sua possibilità di soggettivazione e di personalizzazione che rovescia l’assunto sulla funzione vendicativa e indisponente della memoria e del suo uso. La memoria e quello che sbrigativamente siamo soliti indicare come il suo rovescio – l’oblio – si ampliano semanticamente, si scindono ed entro certi limiti si incontrano.

Wiesel grazie a questo romanzo rende in forma narrata una ipotesi di indagine a cui antropologi e sociologi stanno attendendo da anni: la “faccia nascosta” della memoria, ovvero quella dimensione dell’inquietudine della memoria che fa agire l’oblio non solo per rendere il passato e il presente reciprocamente coerenti, ma anche per attivare un’immagine di sé‚ gratificante, rimuovendo ogni elemento che possa far emergere punti di debolezza, ambivalenze, equivocità. Dunque per oblio dovremo intendere non tanto il rifiuto della memoria, ma la possibilità di costruire una memoria «altra», salvifica.

Ma se c’è una trasmutazione semantica dell’oblio, al tempo stesso Wiesel procede anche a una metamorfosi di ciò che normalmente si indica con il termine di memoria. La memoria per Wiesel non è infatti il racconto compiuto, sistematicamente organizzato, né le tecniche operative che la costituiscono. Memoria sono per Wiesel gli strumenti comunicativi che la fondano, più precisamente le parole.

“Avevo voglia di una mela – dice il vecchio Elhanan – ma non sapevo più come chiamarla. Puoi capirlo? Vedevo la mela, sapevo che era un frutto, ricordavo il suo odore e il suo gusto, avrei potuto disegnarla ma…il suo nome mi sfuggiva.(..) La superiorità di Adamo consisteva nella sua capacità di nominare gli animali che Dio gli mostrava. Non essere in grado di nominare le cose era per i romani la maledizione estrema: Nomina perdimus rerum si lamentavano. Un sordo non sente le parole, ma le conosce. Un muto non le pronuncia ma le capisce…  Ma cos’è una mela per un giardiniere cieco? (pp. 210-211).

Fuori e oltre il romanzo, Wiesel apre così il problema del passaggio dalla memoria alla sua narrazione, ovvero la «memoria della memoria». Il tema a cui il testo allude non è solo il racconto, bensì il suo contesto, o meglio la pertinenza e la leggibilità tra testo e contesto.

Se sono le parole a costituire la memoria e dunque il racconto è possibile solo per loro tramite, il problema posto da Wiesel non è banalmente risolvibile nel fatto che se il revisionismo storiografico rimette in discussione una versione, sia sufficiente replicargli rivalutandola, ovvero rimettendola meccanicamente in circuito. Perché‚ questo sia in un qualche modo possibile occorre coniare parole, ritrovarle e risemantizzarle, perché la perdita di memoria, meglio il suo smontaggio, non è altro che desemantizzazione di parole, ovvero il loro disperdersi.

Nel passaggio dalla cultura del dopoguerra a quella della “fine del dopoguerra”, a quella del tempo attuale in gioco sono la sopravvivenza, la persistenza, talora il ritorno, di altre parole come segno del crollo di un tabù, apparentemente interiorizzato come superamento definitivo di quel vizio ideale e culturale che è stato all’origine della catastrofe (laddove con questo termine Wiesel intende l’annientamento fisico del popolo ebraico ad opera del nazismo).

È questo un tema di riflessione che accomuna Wiesel alla scrittura di Primo Levi e che Wiesel aveva già avvisato a metà degli anni ’60, quando scriveva: “Attento le parole sono pericolose. Dovrai diffidarne. Esse generano demoni o angeli. Non dipenderà che da te dar vita agli uni o agli altri. Attento ti dico, non c’è nulla di più pericoloso che dar loro libero corso” (L’ebreo errante, La Giuntina, p. 21).

Non è un problema solo di chi ha a cuore la memoria.

Quella partita sul significato corretto delle parole è all’origine della riflessione della politica moderna. E’ Thomas Hobbes a sostenerlo, quando scrive nel Leviathan che “il vero consiste nel retto ordine dei nomi nelle nostre affermazioni: un uomo che cerca la precisa verità ha bisogno di ricordarsi che cosa significa ogni nome che egli usa, e di usarlo secondo il suo significato” (Leviatano, parte I, cap. IV).

Il problema della memoria, sembra ammonire Wiesel non sta dunque nel nostro racconto, ma negli atomi che lo compongono, nella miscela chimica che determinano, nel meccanismo semantico a cui danno luogo. Perché‚ ci sia memoria o oblio occorre un testo e una storia, ma questi non coincidono essi. Memoria e oblio sono il prodotto di un testo, fuoriescono da un dialogo. Wiesel riporta un midrash nel corso del suo testo: “Nelle nostre preghiere delle grandi feste imploriamo il Signore di ricordarsi del mancato sacrificio di Isacco. Il Dio di Abramo, un semplice smemorato, è concepibile? In verità noi gli indirizziamo le nostre richieste in nome del ricordo per dimostrarGli che anche noi ce ne ricordiamo” (p. 154).

Dimenticare e non ricordare sono due processi distinti come ricordare e non dimenticare. Tutti e quattro questi stati della mente rinviano a un’identica condizione, l’attivazione concreta di un attore rappresentato dalla catena delle parole. Tutti e quattro aprono all’interrogativo sul loro uso.

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