Letteratura
A proposito di Piero Gobetti: intervista a Paolo Di Paolo
Ci sono storie che non conosciamo finché non ce le raccontano e per una qualche ragione non ci lasciano più. A me è capitato con Piero Gobetti, giornalista, intellettuale antifascista morto a 24 anni dopo essersi difeso con tutte le forze dalla violenza psicologica e fisica del regime fascista. Un’esistenza molto vicina (no, non dico sciocchezze) a quella di Giancarlo Siani: in entrambi i casi, oltre il tempo e le distanze, permane l’immagine di una mente fulgida e uno spirito ardente.
Siamo a Torino, anni Venti. Le censure del fascismo mal si conciliano con l’intraprendenza e la lucidità di Gobetti, che organizza e dirige riviste e vanta tra i suoi maestri Luigi Einaudi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Gobetti è un pratico. Disdegna chi fa della conoscenza uno specchio per riflettere una grandezza occasionale e i topi da biblioteca, scollegati dal reale. Scrive di politica, società, lavoro con occhio critico ed interrogativo. La sua vita privata sconfina in quella pubblica, studia Giurisprudenza ma pure Lettere. In nome della verità, scappa in Francia da un’Italia ideologicamente blindata, ma muore prima di riuscire ad organizzarsi al meglio per riprendere le attività editoriali.
A Piero Gobetti si ispira uno dei personaggi di Mandami tanta vita (Feltrinelli), romanzo dello scrittore Paolo Di Paolo che di recente ha curato Piero Gobetti, Avanti nella lotta amore mio. Scritture 1918/1926 (Feltrinelli), raccolta di saggi, lettere, stralci di diario nei quali Gobetti delinea un profilo degli italiani e del Belpaese ancora attuale e amarissimo. Ma soprattutto si racconta: dice delle sue letture, delle sue insicurezze, dei suoi desideri come cittadino ed editore, del suo amore per Ada Prospero, dei movimenti politici, delle lotte operaie, della fatica di essere un libero pensatore.
Paolo Di Paolo (in foto), che tante energie ha dedicato alla figura e all’esistenza di Gobetti, ha risposto a qualche domanda a proposito.
Paolo, come si è imbattuto nella storia di Piero Gobetti, a molti sconosciuto?
Molte volte, andando all’università di Roma La Sapienza, ho percorso via Piero Gobetti. Non dico tutti i giorni, ma quasi. Il nome mi era capitato sotto gli occhi qualche volta, ma non ne sapevo granché. Ho approfondito entrando da una porta solo in apparenza laterale, quella dell’epistolario. Attraverso quelle pagine mi sono reso conto di avere davanti, prima di tutto, un coetaneo. Un ragazzo di ventiquattro anni, che tra i diciassette e quell’età accumula una tale quantità di esperienze intellettuali da far sfigurare chi ha vissuto il triplo del suo tempo.
Cos’erano per Gobetti la politica, la partecipazione sociale, la cultura, la libertà?
Da autodidatta, in una casa senza libri, Gobetti si forma – così avrebbe detto lui – una coscienza morale. La curiosità famelica per le lettere, per la filosofia, per l’economia politica, che studiò all’università avendo per professore Luigi Einaudi, lo portano precocemente a maturare una visione politica. Quella “rivoluzione liberale”, che sceglie per titolo di una sua rivista, è l’innovativo (benché appaia come una contraddizione in termini) fondamento di un discorso che avrebbe potuto avere incredibili sviluppi. Il motto che sceglie per la casa editrice a cui dà vita – Che ho a che fare io con gli schiavi? – mi pare riassuma al meglio la sua idea di cultura come libertà.
E l’amore? Ada pare venire fuori come una compagna e una sostenitrice, o sbaglio?
La storia d’amore fra Piero e Ada è un romanzo a sé. Vivono nello stesso stabile di via XX Settembre a Torino, lui le chiede qualche contatto di possibili abbonati per la prima rivista, Energie Nove. Si innamorano, e nasce da questo un sodalizio profondissimo di natura anche intellettuale. Traducono insieme dal russo, lavorano alla casa editrice. Ada sostiene Piero in tutto: e lui le riconosce questo ruolo non solo di astratta Beatrice, ma di sostegno psicologico e di ancoraggio alla vita concreta. Lei costringe sé stessa a parecchie rinunce (la musica, su tutte); si sforza anche a contenere un temperamento più “romantico” di quello di Piero. È una donna che darà impressionanti prove del suo coraggio, della sua grandezza dopo la morte di Piero: entra nella Resistenza, si occupa di pedagogia in modo modernissimo, diventa vicesindaco di Torino…
Cosa ha imparato da uno come Piero Gobetti e cosa potrebbe imparare chi non lo conosce?
Più che imparare, direi esporsi al bagliore della sua vita. Quando invita a “essere sé stessi dappertutto”, a non cedere alle allucinazioni collettive, a non rassegnarsi a un eterno tipo di italiano che se la intende col vincitore, che vive nelle ghenghe, nelle sette… sta parlando ancora da molto vicino. La sua breve esistenza non è quella di un monumento polveroso, ma quella di un ragazzo – coraggioso, appassionato – che non si nasconde dietro l’alibi di una crisi, che sfida sé stesso, il proprio tempo e forse anche il futuro.
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