Letteratura
A Passi Incerti, romanzo che mette al centro l’uomo con le sue fragilità
La storia del dolore di Emilia é descritta senza cliché e luoghi comuni, senza indugiare nel pietismo spesso usato per narrare di disabilità. Il dolore anima la sua fantasia, la sua poesia é magia che salva e che lenisce il lato insostenibile dell’esistenza.
A passi incerti (Mauro Pagliai editore), primo romanzo della poetessa Grazia Frisina, é la narrazione raffinata di una vicenda dura, penosa, tribolata. La protagonista Emilia, svolge una vita tra quattro pareti, confinata su una sedia a rotelle a cui la costringe una malattia degenerativa, l’atrofia muscolare spinale.
«Il nostro cieco ci disse che sarebbe stato tentato di compiangere la propria condizione, e di
considerarci come intelligenze superiori, se non avesse avuto cento volte la prova di quanto
noi gli siamo inferiori sotto altri aspetti» (Diderot).
Già nel Settecento, con la Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient, Diderot ripensa profondamente la dicotomia
normalità – malattia/disabilità: non solo il cieco affina altri sensi, ma questa sua condizione
presenta degli aspetti positivi peculiari come, ad esempio, una maggiore capacità di astrazione,
quindi un’inarrivabile profondità di pensiero.
La necessità di un pluralismo culturale in grado di ampliare lo sguardo sulle diverse dimensioni
di vita e sull’ampio ventaglio di esperienze quotidiane della persona è ancora più cogente nell’epoca attuale, caratterizzata da una visione ossimorica del corpo e del sistema corpo-mente: da un lato i miti imperanti della salute, bellezza, efficienza fisica e psicologica,
dall’altro la presenza pervasiva della disabilità, riscattata ideologicamente e trionfalmente esibita in nome della body positivity da sempre più numerosi influencer, anche con menomazioni.
Nella nostra società che ha dato l’illusione di poter garantire a molti una vita lunga, energica, sana ed efficiente si impone a maggior ragione una riflessione sul senso delle fragilità e delle imperfezioni umane. A Passi Incerti è un testo letterario che ha la capacità di rimettere al centro l’uomo, con le sue fragilità, e l’esperienza umana, in tutte le sue forme.
Il mondo di Emilia é impregnato di grigio, di un colore che smorza qualsiasi entusiasmo e voglia di vivere, ogni slancio, tutto è spento come la sua anima: “il palazzo in cui abita….ogni angolo sembra essere foderato di caligine di polvere che non si vuole staccare….il grigio é dappertutto: sui muri, sulle ringhiere delle scale, sulle facce e i gesti delle persone”. Un mondo che vede a distanza dall’alto al basso seduta sulla sedia dal terzo piano da quando aveva 5 anni. Un fardello che grava anche su sua madre che fa fatica a rassegnarsi a quel verdetto definitivo e che diventerà ancora più pesante da sopportare con la morte del padre. Il computer, nella sua condizione, rappresenta un prolungamento delle sue gambe, un rituale a cui non riesce a rinunciare subito dopo aver sorteggiato il caffè mattutino. Con quello può viaggiare libera, incontrare altre solitudini e soprattutto scrivere poesie nelle quali trova “leggerezza, consolazione, rifugio”. In quello spazio segreto la sua vita trascorsa a vegetare assume un senso, si tinge di colore, riprende spessore. Non consente a nessuno di leggere le sue poesie né alla sorella Stella,” presa nei suoi studi sulle pietre e dai suoi amori tormentati” né a Giulia, la sua amica del cuore che una volta a settimana va a trovarla parlandole “del suo fidanzato e del suo noioso lavoro da impiegata presso lo studio di un commercialista”. Le poesie sono il suo segreto, la prima che incontriamo nel testo é dedicata alla nebbia che é ” familiare, ti fa sentire come un fantasma, un essere senza corpo”. È questa sensazione di un corpo ingombrante, di un’amputazione a farla sentire mutilata di una vita normale, di sogni ed aspirazioni che non le sono concesse e che fa sentire Emilia un’handicappata. L’incontro con la poesia avviene grazie ad un regalo dell’amica per il suo ventesimo compleanno: un libro di Emily Dickinson i cui versi “Perché fuori dal cielo m’hanno rinchiusa” provocano in lei un’immedesimazione, avverte anche lei quel senso di esclusione. Da allora consente alla poesia di esprimere le sue zone di ombra, é sfogo al tumulto che la agita scuotendola da quel dolore soffocato, compresso, la aiuta a costruire mondi alternativi facendo uso delle parole che rischiarano, seppure momentaneamente, apportando un po΄ di luce alla sua scialba e greve vita.
“Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato nel corpo di una donna?” Questa é la domanda che Virginia Woolf si pone sottolineando il fatto che di donne hanno parlato solo gli uomini perché il mondo letterario é accessibile solo all’uomo, da cui la donna è sempre stata –paradossalmente- esclusa. Per Emilia la stessa domanda é valida, ma la trappola che tiene incatenato il suo cuore é proprio il suo corpo, l’aguzzino che le sottrae qualsiasi slancio vitale.
La poesia é il suo rifugio, si rifiuta inizialmente di far leggere i suoi componimenti ad Antonio- il suo bravo terapista che spesso la punzecchia e la prende in giro- é un luogo appartato che Emilia vuole tenere tutta per sé, proprio come Virginia Woolf parla di una stanza tutta per sé. Se per la poetessa libertaria e fuori dagli schemi, la stanza serve non solo a non correre il rischio costante di essere disturbata –come Jane Austen, che lavorava nel soggiorno con tutta la famiglia-, ma soprattutto per affermare e mantenere un’individualità solida, sottraendola al rischio di perdersi in una società maschile e maschilista che soffoca la libertà di espressione delle donne, Emilia trova quella libertà nella possibilità di trascendere il luogo fisico, la sua stanza, connettendosi al sito “poetinascosti”. È Emily Dickinson, la sua omonima, il mito di Emilia, la sua amica immaginaria, una donna ” che fu capace di far abitare la poesia nelle parole, nelle cose e nella sua stessa esistenza, una donna capace di sfidare le convenzioni di una società moralista e falsamente pudica”. Emilia considera falsamente compassionevole chi la guarda costretta nella sua sedia a rotelle, a quella prigione preferisce vivere clandestina in casa dove non é sottoposta a occhiate che la spogliano della sua dignità, o a tentativi dei suoi amici di farla sentire normale. La solitudine di Emilia, come quella di Emily, cerca una via di uscita; i suoi versi che considera un groviglio, un miscuglio di polvere e relitti incontrano un giorno quelli di Athos che sin da subito attanagliano i suoi pensieri. Si imbatte, sul sito dei “poetinascosti”, in versi che recitano Lontano é Aprile… io non ho più gioia di vivere”, e inizia a fare supposizioni sul perché Aprile viene preceduto dalla parola lontano.
Questi versi richiamano alla mente quelli della Terra Desolata di Eliot:
“Aprile è il più crudele di tutti i mesi. Genera
lillà dalla terra morta, mescola
memoria e desiderio, desta
radici sopite con pioggia di primavera”.
Quel lontano ci riporta ad un mondo in cui tutto é morto, alla crudeltà di aprile che ha a che fare con la sua fertilità e vitalità. Il mese che “genera” e che rianima è la condanna all’impossibile risveglio costretto a fare i conti col dolore.
Inizia, così, una corrispondenza amorosa che se da una parte le scalda il cuore, dall’altra soffia sul fuoco della rabbia e l’acredine, mai sopita, contro il mondo intero perché non riesce a rivelare la sua condizione di diversa all’uomo con cui intrattiene un rapporto fatto di rime. Si spaccia, addirittura, per la sorella Stella che diverse volte le rinfaccia di credere di essere l’unica ad avere problemi e pensare che gli altri ne siano esenti. Stella soffre per la sua incapacità di trovare un uomo che scorga al di là della sua bellezza, la sua fragilità. Passato qualche tempo dall’inizio della corrispondenza, Athos, appassionato di Holderlin, preme per conoscerla nonostante la ritrosia mostrata da Emilia che panificherà l’incontro della sorella, di cui ha assunto l’identità, col suo adorato compositore di rime. Seguiranno litigi e crisi di coscienza, atti di autolesionismo, che porteranno Emilia alla consapevolezza che accettare la verità senza confondere, usare sotterfugi, nascondere, é l’unica via di uscita, che uscire dal suo isolamento significa avere il coraggio di non sottrarsi alla possibilità di provare emozioni autentiche e che il primo passo all’abbattimento di barriere deve partire, ancor prima che dalla società, da lei, combattendo la tendenza a lasciarsi infiacchire rendendo la vita confortevole sopravvivenza. La storia del dolore di Emilia é descritta senza cliché e luoghi comuni, senza indugiare nel pietismo spesso usato per narrare di disabilità. Il dolore anima la sua fantasia, la sua poesia é magia che salva e che lenisce il lato insostenibile dell’esistenza, il tragico é smorzato dalla poetica del dolore che afferma la vita nonostante la palese sofferenza. Il dolore non é sedato attraverso analgesici che conducono a un ottundimento spirituale attraverso la sua soppressione, la poesia diviene lezione che rende il dolore raccontabile, anzi cantabile, lo rende linguaggio, e lo traghetta in narrazione, in una corrente navigabile, é flusso narrativo che conduce non ad un vicolo cieco, ma ad un’esplorazione di sè, un’esposizione alla verità. La poesia diventa una levatrice prolifica che accoglie la fragilità, da essa trae impulso attraverso uno scandaglio di emozioni che edificano, liberandola e riscattandola dalla sua condizione di diversa. Sebbene la forma narrativa è in prosa, la misura poetica del romanzo di Grazia Frisina é notevole. La poesia della protagonista é dolce compenso, il dolore guida la penna di Emilia, estorce la lingua, la rende servizievole ai fini della scrittura.
Ne Il Mio Sogno, una prosa giovanile, scrive Schubert:” Da lunghi anni intona canzoni. Se voglio cantare l’amore, ecco che diviene dolore. E se voglio cantare solo il dolore, esso diviene per me amore”.
Emilia, dovrà lasciarsi attraversare dalla disperazione per comprendere ciò, ma perviene ad un grado di coscienza e autoaffermazione che si traducono in versi in cui il Bello è il colore complementare del dolore, contrappone l’integro al dolorosamente sfigurato, il dolore spinge lo spirito alla costruzione di un contromondo salvifico col quale possa vivere, disegna i suoi contorni, anima una verità che è divenuta carne.
Grazia Frisina dà vita ad un romanzo in cui ci induce a riflettere sul fatto che in un mondo in cui il dolore é rimosso, scompare in un’anestesia permanente che derealizza il mondo, in cui la digitalizzazione fa sparire l’interlocutore, il dolore è vincolo, chi rifiuta qualsiasi circostanza dolorosa é incapace di vincolarsi. Se scompare del tutto la capacità di percepirsi, si cerca un sostituto artificialmente fabbricato: senza dolore non abbiamo né amato né vissuto, abbiamo evitato di esporci; la via della formazione é dolorosa, la formazione presuppone la negatività del dolore.
Keats definisce la capacità negativa la capacità di tollerare e di convivere con ambiguità e paradossi, di tollerare l’ansia e la paura nel tentativo di permettere l’emergere di nuovi pensieri o percezioni. Significa entrare in relazione con ciò che muta e che ci terrorizza, significa dunque, tollerare una perdita di sé, rischiando di frantumarsi in mille pezzi e sostenerla. Una capacità negativa che mette in contatto con ciò che non si conosce, che può essere colto solo da un’intuizione, ciò che nell’ambito poetico può essere chiamato in vita solo grazie allo sforzo creativo dell’immaginazione e che offre la possibilità di aprirsi a dimensioni sconosciute di sé e del mondo. Una capacità che coincide con lo sforzo costante di rimanere aperti, permeabili a ciò che ci viene dall’esterno, che si identifica fondamentalmente con una modalità non difensiva e con la volontà di rendersi vulnerabili.
Grazia Frisina ci suggerisce con elegante sapienza e un racconto raffinato che é necessario imparare nuovamente a connetterci con le proprie emozioni; solo così si può mettere in moto un racconto di rinascita.
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