Letteratura
2084, verrà la fine del mondo e non ci ricorderemo cos’era la Storia
Le caratteristiche sono quelle tipiche di un’epoca post nucleare con la differenza di una strana armonia di fondo, di una tranquillità che sembra plasmare il carattere degli uomini che appaiono così sereni più che assoggettati. La guerra, le razzie e il dolore fanno parte del passato, di un tempo equivoco e straziante in cui confusione e una guerra globale attraversava le nazioni e i territori.
Di quel tempo sono rimasti gli edifici diroccati trasformati però a museo. Come una sorta di Hiroshima del futuro questi mausolei del passato sembrano contenere e allo stesso tempo plasmare rendendo inoffensivo il passato, anestetizzando in sostanza il dolore. Solo un numero attraversa città e strade, un numero ripetuto ossessivamente, inciso e scritto su muri e cartelli: “2084”. Forse la data d’inizio della fine del mondo che conosciamo, la data in cui la guerra divenne possibile e tutto realizzabile: soprattutto la ferocia e la morte.
L’impero è vasto, l’ordine è assoluto, siamo nell’Abistan trionfante di una guerra che ha restituito con l’armonia anche una teocrazia priva di opposizione e garantita oltre che da Dio da un consenso diffuso e totale. Boualem Sansal con 2084, la fin du monde (Gallimard) – vincitore nel 2015 del Grand Prix du roman de l’Académie française – ha dato vita ad un romanzo che supera l’ansia e il terrore dello scontro di civiltà entrando a piedi uniti con un racconto vivido di un’epoca nuova in cui il prezzo dell’armonia (la sottomissione immaginata di Michel Houellebecq) non è nemmeno presa in considerazione perché il dado è tratto e la storia è data.
Quello che resta nel magnifico, ma certamente equivoco romanzo di Sansal è un perenne rumore di fondo, un rumore bianco che come già in Don Dellillo (e non solo in Rumore bianco) proviene ossessivo dal passato, anzi da un passato che prende forma senza essere mai esistito: una sorta di presente dimenticato, rimosso.
2084, la fin du monde arriverà a breve nelle librerie italiane pubblicato da Neri Pozza, ma già con Il villaggio del tedesco (Einaudi) pubblicato in Italia nel 2009 erano evidenti nella costruzione narrativa dello scrittore di origine algerina l’angoscia e il tormento per un passato ignoto che ritorna prendendo forma e restituendo un presente privo di certezze e punti di riferimento saldi con cui potersi orientare. Boualem Sansal non è tuttavia uno scrittore della nostalgia, il suo non è un panorama tracciato dalla malinconia di un passato richiamato perché evocativo come accade nella narrativa del premio Nobel Patrick Modiano. Allo stesso tempo Sansal rifugge dal dibattito pubblico evitando forzature parapolitiche che contraddistinguono sia la forza quanto la debolezza di un grande autore come Michel Houellebecq o peggio ancora la superficialità di un autore istituzionale (per non dire delle istituzioni) come Tahar Ben Jelloun.
Sansal avanza circospetto in un territorio dell’inesistente che si protrae tra l’immagine di un passato retorico e posticcio (come accade al protagonista de Il villaggio del tedesco) e un presente in cui la violenza è pronta ad esplodere come elemento di verità, ma anche – e qui credo Sansal incide con forza inedita – come superamento del limite, ossia come perdita di ogni riferimento perché ogni cosa diviene reale prima ancora che possibile. Il superamento del limite è così anche il suo abbandono, la faccia ostile di un’armonia che è solo di facciata. Superare il limite significa piombare totalmente nell’epoca del rumore bianco.
Il superamento del limite è una caratteristica per certi versi tipica di una globalizzazione che ha messo in crisi gli stati nazione e i loro stessi confini e da qui prende spunto il modello evidente di 2084, la fin du monde ossia 1984, il capolavoro di George Orwell. La perdita della misura, o meglio la permanenza della dismisura è una delle caratteristiche del nostro tempo come ricorda con puntualità Remo Bodei in Limite (Il Mulino): “Il limite diventa, quindi, immancabilmente provvisorio, si sposta con i soggetti al pari dell’orizzonte, chiude per aprire, è fatto per essere sormontato. Questo è il senso più pregnante della parola progresso, che non coincide più né con la trasgressione, né con la hybris, ma si nutre piuttosto del bottino strappato agli arcana natura, agli arcana Dei e agli arcana imperii”.
Una crisi che coinvolge principalmente l’autorità intesa come alta entità, ma che lascia via libera a qualsiasi Dio degli uomini purché sia invisibile e assente. Un’autorità della dismisura che nella fluidità delle nazioni e delle regole ormai cadute possa imporre un immaginario capace di coniugare assenza di passato con una deresponsabilizzazione rispetto al ruolo di natura dell’uomo. La globalizzazione rischia così di prendere una forma autoreferenziale al punto da perdere ogni riferimento con la Terra e le sue (nostre) esigenze naturali.
Scipione Guarracino scrive in tal senso un libro sorprendente per sguardo globale, taglio divulgativo e ricchezza delle informazioni e dei dati in un testo agile e di piacevole lettura. Da poco in libreria, Allarme demografico. Sovrappopolazione e spopolamento dal XVII al XXI secolo (Il Saggiatore) presenta un panorama dal colonialismo alla società dei consumi. Scipione Guarracino attraversa quattro secoli di allarmi demografici riuscendo a delineare un percorso relativo al cambiamento sociale che ha di volta in volta posto l’urgenza di uno spopolamento o di un sovrappopolamento sottolineando così come l’ordine venga sovrapposto al senso della misura. Un limite il cui contenimento nei secoli è solitamente associato a danno dei selvaggi o degli inadatti. Un limite dunque dato da un ordine sociale e religioso che aderiva totalmente e anzi era funzionale ad una difesa della società, della razza e quindi dello status quo.
Ma cosa avviene quando il limite viene perso? Per prima cosa solitamente si torna alle origini e si accusano per l’appunto i cosiddetti selvaggi e inadatti di aver mutato gli equilibri e modificato irrimediabilmente l’ordine sociale. Guarracino non ci abbandona però fortunatamente al ritratto di un passato poco edificante che ci ha proiettato in un presente alquanto fragile, ma ci offre una via d’uscita in quell’ostinato lavoro d’occhio e di lima che è l’analisi delle previsioni, ossia di un futuro utile al presente e non alle speranze inevase già nel nostro sconsolante passato.
Quindi come affrontare il futuro? Quale spazio ci resta prima che il rumore bianco ci assilli fino ad annientare ogni forma possibile di alternativa e di diversità? In tal senso ci viene incontro il geniale Theodore Zeldin che con Ventotto domande per affrontare il futuro (Sellerio) elabora un testo profondo e al tempo stesso gioviale che ha nel titolo la giusta leggerezza di tono di uno dei più importanti intellettuali inglesi. Il futuro è nelle idee, la vita è nelle idee, così come le scoperte e le rivoluzioni si basano sulle idee.
In quest’ottica l’unico senso che ha superare il limite e affrontarne i conseguenti rischi sono appunto le idee: un plurale è evidente, che ha alla base un senso di comunità e di partecipazione. Infatti non per un’idea, ma per la curiosità di esplorare i limiti attraverso l’ausilio delle idee: “Chiunque sia isolato socialmente da chi ha un reddito o un’istruzione diversi, o culturalmente da chi ha altri gusti e usa un linguaggio che per lui non significa nulla, o anche professionalmente da chi non è specializzato nelle medesime competenze, è sempre più estraneo ai suoi simili: può avere la tecnologia per comunicare, ma è ben lontano dall’essere valutato in modo corretto o dal suscitare una simpatia reciproca. Per questo, ho cercato di scoprire che tipo di conversazioni potrebbero liberarci dall’idiozia del nostro isolamento”.
Confondere, in sostanza come scrive con grande affabilità Theodore Zeldin diversità con isolamento è probabilmente alla base di un rischio che sta traducendo l’equilibrio globale in una serie infinita di guerre atroci e terrificanti. La guerra ai nostri simili è ormai all’ordine del giorno, una guerra in cui la diversità non è altro che isolamento, confusione di linguaggio e paura indotta per una diversità reale che non sarebbe altro che una forma di arricchimento sociale e globale, ma probabilmente anche una insostenibile perdita di rendita per un potere che nel governo dei suoi equilibri pare sempre più in affanno di fronte ad uno spazio comunitario che è oggi nell’ordine delle cose, ma sempre meno nei fatti.
Se come ricorda sempre Zeldin nei secoli le nazioni hanno riunito sotto il loro cappello un’enorme diversità di gusti, oggi la globalizzazione pare invece condurci verso un’organizzazione mondiale che può declinarsi o in chiave di similitudine o di normalizzazione. La seconda via sembra ultimamente aver preso piede con i nefasti presagi che Boualem Sansal e altri stanno intravedendo. La fine del mondo rischia di diventare il rifugio di una mancanza di coraggio di idee, l’abbattimento inutile e fine a se stesso del limite. Una fine senza dubbio tragica in cui l’armonia ha il sapore di un rumore assordante e l’aria asfittica di un mondo privo di idee e quindi di umanità in cui noia e panico vivono sullo stesso piano come nella Russia che fu patria di Iosif Brodskij.
Per sfuggire alla noia e al panico è bene porsi delle domande come del resto fa Theodore Zeldin, ma per dare loro forma è necessario prima di tutto coglierne l’essenziale necessità, tornare all’urgenza della nostalgia. Scrive Antonio Tabucchi in L’automobile, la nostalgia e l’infinito che raccoglie le sue lezioni tenute nel 1994 all’Ècole des Hautes Ètudes en Sciences Sociales di Parigi e ora felicemente tradotto da Clelia Bettini e Valentina Parlato per Sellerio: “La vita non si ripete; ogni nostro istante, ogni nostra azione, ogni nostro gesto, tutto quello che ci è permesso di vivere, accade una sola volta, e non potrà mai più essere”. Lo spazio della nostra curiosità è dunque irripetibile e unico, ma è anche dato. Inutile sottomettersi ad un’armonia priva di senso e di ossigeno, necessario è invece liberare una curiosità trasgressiva capace di volta in volta di ristabilire il senso del limite, oltre il quale esiste solo un massacro privo di senso e di prospettiva. Il 2084 non farà mai il nostro gioco.
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