Lavoro
“108 metri”, una storia che ci riguarda
“Le storie vengono da un luogo lontano dove siamo già stati”, (Aldo Nove).
Duplice è la scelta della frase che ho usato per iniziare quest’articolo, una più propriamente estetica, 108 è divisibile per nove, l’altra più sostanziale, perché quella di Prunetti è una storia personale e intima, ma al tempo stesso è una storia estremamente attuale, quella in cui molti si sono ritrovati perché parla dei giovani che oggi sono costretti a trovare all’estero un posto di lavoro che consenta loro di realizzare un progetto di vita, possibilità che il nostro Paese spesso nega, negando con essa il valore della dignità umana.
“108 metri” racconta di nuovi proletari e precari, legioni affollate e irrequiete di gente che chiede un rapporto di lavoro stabile, a tempo indeterminato. Anche se non hanno studiato il latino, avvertono la pericolosità di quel “precarius”, generato dal “prex”, dalla preghiera, dal favore. Si agitano perciò finché il loro diritto al lavoro non sia affidato al rischio di una prex, ma garantito dalla forza della “lex”, fanno scioperi, issano striscioni contenenti imprecazioni contro il governo. Sono preghiere capovolte le loro, dal latino “imprecari”, pregare contro, mentre il giorno dopo i giornali deprecano.
Nell’approcciarmi un po’ timorosa scopro una persona disponibile a raccontarsi, un gran parlatore.
Perché intitoli il tuo libro “108 metri the new working class hero”?
108 metri è la lunghezza standard dei binari ferroviari costruiti in passato in Italia ma adottati ovunque la cui lunghezza, dice con orgoglio, è superiore alla lunghezza dell’Old Trafford, stadio in cui gioca il Manchester United. Il sottotitolo, ”the new working class hero”, fa riferimento al testo della canzone di John Lennon figlio di operai, proprio come me.
Nella tua precedente opera “Amianto” parli della figura di tuo padre, Renato, saldatore, tubista in trasferta nei vari cantieri d’Italia che si ammala di mesotelioma in quanto esposto a fibre d’amianto. Quella di Renato che respira piombo, zinco e, per riprendere una tua espressione, buona parte della tavola degli elementi di Mendeleev è una storia di morte. Quella di Alberto è una storia di vita. Qual è la strada che ti porta alla salvezza?
Poter raccontare questa storia. Rispetto a mio padre mi sono dotato degli strumenti culturali per poterlo fare. Mio padre non ha potuto studiare, a 14 anni ha iniziato a lavorare, quello che lui ha avuto la possibilità di fare era scioperare, lottare per rivendicare diritti. Quello che accomuna il proletariato rappresentato dalla classe operaia ai tempi di mio padre e quello moderno che si accontenta di fare lavori non qualificati a volte privo persino della consapevolezza di essere proletariato, è il fatto di essere subalterni. Tutti, più o meno, sono rassegnati alla loro condizione, obbligati a un lavoro estenuante e malpagato con turni che cancellano qualsiasi vera relazione personale, senza dayoff o holidaypay, senza National insurance.
Mentre in Amianto il proletariato era alle prese con i cavi elettrici e aneddoti sarcastici del mondo operaio, in “The new working class hero” il sarcasmo si gioca nel bagno del mall. Ci spieghi di che si tratta?
Mentre lavoravo, acquisivo un lessico riguardante un water intasato, il mio era un vero e proprio apprendimento sul campo, a volte facevo ricorso a un dizionario tascabile cosicché i servizi igienici del mall assumevano quasi le sembianze di un’aula magna di una grammar school. Il mio lavoro non era pesante a livello fisico ma noioso, si trattava di camminare su e giù, controllare e pulire i bagni e capitava quindi che mi lasciassi andare alla fantasia per non soccombere alla fatica della noia.
In working class hero, Lennon sostiene che siamo controllati con facilità perché permettiamo che alla nostra immaginazione vengano tarpate le ali. C’è nel tuo libro una volontà di lasciarsi trasportare dal sogno come quando sogni di ballare nel mall. Uno scrittore matter of fact come te, che trasuda polvere, aderente alla realtà, che denuncia soprusi e ingiustizie, che rapporti ha con i sogni?
Londra l’ho sognata fin dalle scuole superiori, rappresentava forse la possibilità di fuga per esorcizzare la paura di rimanere prigioniero di quel pezzo di Maremma che sta tra due fabbriche e un lembo di mare. Poi quando sono arrivato in Inghilterra, mi sono scontrato con la realtà poiché le cose non erano per niente uguali a quelle che avevo sognato, ho svolto, infatti, una sfilza di lavoretti soprattutto nel settore dell’alimentazione principalmente pizzerie pseudo-italiane, la mensa scolastica di una scuola e mi sono reso conto che la promessa di un welfare per tutti includeva la possibilità di pulire i bagni. Nel libro, comunque, c’è a volte una volontà di abbandono alla dimensione del sogno, un po’ come accade nell’Albatros di Baudelaire, una dimensione spesso negata nelle fredde città industriali, c’è una volontà di fuga dalla gravità della classe operaia, una fuga che non è desiderio di darsela a gambe ma di essere qualcosa di più e di diverso dal sentirsi marionetta di un sistema che ci vuole “carne da macello ignorante al servizio di un sistema a paga sindacale minima”.
Parliamo un po’ della lingua che tu utilizzi. In primis c’è un inglese che non è british, ma soprattutto splanglish, si incappa diverse volte nel vocabolo” fuck”. Quanto credi che le parole descrivano un’epoca, e “fuck” è la parola di un’epica stracciona?
L’inglese che io parlavo prima che arrivassi in Inghilterra, era l’inglese trovato nei sussidiari scolastici, l’inglese della middle class britannica, mentre il linguaggio della working class è formato da una prevalenza di swear words una lingua emotiva dell’ingiuria e della rabbia un po’ come quella usata dagli Sleaford Mods in “jobseeker” in cui si parla di una telefonata di un centro per l’impiego che si informa se il lavoratore si sta impegnando nella ricerca del lavoro. É quindi una lingua rude, ma sono vite rude quelle di cui racconto, e per ogni vita c’è una lingua.
La tua lingua è una lingua piena di contaminazioni, perché questa scelta?
Non è stato facile trovare una forma linguistica adatta in quanto la narrazione si svolge in italiano, ma doveva immergersi in un contesto anglofono e riportare dialoghi tra chi parlava un linguaggio sporco, contaminato non uno standard english e uno che parlava l’inglese stentato che nessuno capiva. Ho usato perciò il vernacolo toscano per dare il senso di una lingua popolare che si alterna a brani in inglese e a ibridazioni.
Sempre a proposito del linguaggio, dici che i verbi sono all’imperativo e li usa il boss: “cammina” “ incessantemente bisogna andare avanti”, “bisogna muovere gambe e braccia”, “stare in piedi”, “mai fermarsi”. Sylvia Plath in “la voce dell’anima”scrive “io sono verticale, ma preferirei essere orizzontale”. La Plath ha piena coscienza di camminare, di essere dotata di capacità di spostamento, potremmo parlare quindi di viaggio di conoscenza. A quale conoscenza pervieni dopo questo viaggio in Inghilterra?
La conoscenza di quanto la lingua sia strategicamente fondamentale. Fino a quando viviamo e lavoriamo nel paese in cui siamo nati, non ce ne accorgiamo, usare la lingua madre è facile come respirare, poi, quando vai all’estero non come turista col portafogli pieno e devi trovare un appartamento, cercare un lavoro può diventare un problema se non padroneggi la lingua del luogo. Rifacendomi un po’ all’isola del tesoro di Stevenson, in questo mio viaggio epico in quest’isola, l’Inghilterra appunto, ho scoperto che il vero tesoro non è il bottino, ma la lingua con cui oggi guadagno il pane.
Non ho il tempo di fare a Alberto Prunetti altre domande, ma non si può parlare di “108 metri” senza fare un cenno all’acciaio.
L’acciaio accompagna Prunetti dall’inizio della sua storia, (l’acciaio di Piombino, l’acciaio della fonderia diventata biblioteca, l’acciaio delle rotaie del treno che lo portano via) lo segue a Londra incarnandosi in Margaret Thatcher, the Iron lady, per poi infine riportarlo nella sua Piombino, back to iron town (come titola un capitolo del libro in cui si fa riferimento a Cartright). Qui all’ombra delle ciminiere di ferro e di un altoforno ormai spento che a dispetto della nocività assicurava l’unico pane, e col ferro che ormai ha invaso ogni suo poro, mette a punto il suo sogno di riscatto, usando “le mani fini dei privilegiati, creando architetture di parole e viti, di bulloni e lettere capitali. Perché “ se ti crocifiggono non si porge l’altra guancia e reagisci con un destro d’incontro” per poi affidare alla penna l’urlo “perché un torto fatto a uno è un torto a tutti”.
La narrazione di Prunetti alterna una profondità quasi “sociologica” a narrazioni picaresche, duro e doloroso ma allo stesso tempo esilarante come quando parte dalla Maremma con una valigia in cui il padre aveva infilato a sua insaputa un pappagallo da idraulico e un serratubi da tre chili mentre la madre aveva messo anche un ferro da stiro per le camicie.
Proprio come le api operaie che bussano ai sogni turbati di Alberto, Prunetti si dà da fare assolvendo il compito di narrare questa storia. Una storia sviscerata sia dall’interno sia dall’esterno in cui gioca un ruolo non più subalterno ma da attore di un mondo che vuole cambiare strada facendo. É la sua storia, la racconta da sé con gli strumenti che il lavoro operaio del padre gli ha fornito e che lui ha affinato e limato formandosi. La sua vicenda la scrive per sé e per chi ha costruito quei binari lunghi 108 metri, forgiati a Piombino, che l’hanno portato via da Follonica ma l’hanno poi fatto ritornare per cominciare la sua avventura letteraria.
“Se mi mettessi a scappare, dovrei scappare per sempre.
Il bianco alveare, compatto come una vergine,
occlude
la sua fecondità, il suo miele, bruisce quieto”.
(La riunione della api, S. Plath)
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