Cultura

Hey, anime belle, ma davvero se Milano è brutta è colpa degli imbrattamuri?

16 Gennaio 2015

Il comune di Milano dovrebbe spendere 100 milioni di euro per la ripulitura di tutte le sozzerie paragraffitare che infestano la città. Così raccontano le associazioni che si occupano del problema. Le cifre su Roma, forse meno sensibile al problema ma altrettanto devastata, non dovrebbero discostarsi più di tanto. Insomma, ai delinquentelli dall’acido facile, il comune di Milano preferirebbe tanti piccoli Bansky con cui abbellire di operine deliziose i nostri muriccioli. La Repubblica, intesa come giornale, affida a Elio Fiorucci, “stilista e artista”, la valutazione morale del fenomeno e il nostro re degli stracci ricorda di quando invitò Keith Haring nell’84: «Lui arrivava lì, disegnava con la matita sui cartelli vuoti della pubblicità ed era meraviglioso vedere quel ragazzo fare disegni bellissimi che oggi valgono moltissimi». Nelle parole di Fiorucci, come peraltro in quelle di moltissimi osservatori salottieri, noterete il legame indissolubile tra l’elemento artistico e quello economico, come costituissero il nobile punto di sintesi tra protesta metropolitana e riconoscimento borghese. Inutile aggiungere, per dire di Haring, che stiamo parlando di un simpatico decoratore (in quel caso di esterni) la cui capacità di emozionare è prossima allo zero.

Se il punto è cosa fare per tamponare il fenomeno degli imbrattamuri, imbratta vetrine, ecc., ecc., sarà utile chiedersi innanzitutto a che livello di offerta estetico-architettonica vogliamo considerare una metropoli come Milano, se davvero quei vandali a cielo aperto abbiano contribuito in maniera sensibile e definitiva allo sprofondo complessivo della città, o se non ne siano, in realtà, l’inevitabile corollario. Dice ancora Fiorucci, sempre considerandolo il nostro Caronte meneghino che cerca di destreggiarsi tra milioni di sozzerie: «Riempire i treni di “tag” o imbrattare i palazzi belli significa danneggiare il prossimo. Mi sembra una cosa di buon senso quella che dico». Ma come no, gentile Elio, di grande buon senso: imbrattare i palazzi belli non è carino. Perché in quel caso, ma solo in quel caso, il dislivello artistico sarebbe evidente anche ai distratti, tra la compostezza di un palazzo d’epoca e un pirla che ci disegna sopra il suo osceno ghirigori. Solo che a una persona più avveduta di lei, sempre gentile Fiorucci, sarebbe venuto in mente esattamente il contrario, in quel caso sì un crimine a cielo aperto e cioè l’imbrattare senza pietà i palazzi brutti, orrendi, invadenti, che non si dovevano mai costruire e di cui Milano è pienissima! Quello sì che è uno sfregio del tabernacolo del buon senso, perché a bruttezza insostenibile si aggiunge una mano non esattamente ispirata dal Botticelli e allora la bruttura diventa questione sociale e non solo da quartiere-bene.

Lasciando perdere pene addirittura detentive per il reato di “associazione a delinquere” finalizzata all’imbrattamento, perché allora dovremmo istituire pubblici processi sulle pubbliche piazze e con tanto di tricoteuses visto cosa è successo a Milano in questo mezzo secolo passato sul piano dello sviluppo architettonico e urbanistico, sarà forse utile interrogarsi su come (e dove) indirizzare un certo disagio, partendo da una scommessa pubblica di reciproco coinvolgimento, autorità cittadine e tutti gli imbrattamuri che ci vogliono stare. Una scommessa con un tam-tam cittadino incessante perché il senso di responsabilità (e anche quello di colpa) possa salire ai massimi livelli. Perché nessuno possa dire dopo: ma io non lo sapevo. Messa nel conto una quota antagonista che non può mai mancare, forse si raccatterebbe qualche anima persa in cerca di identità.

(Foto di Luca Vanzella, tratte da Flickr, Creative Commons)

 

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