Fumetti
Labirinti casalinghi
Un piano dopo l’altro, una stanza dietro l’altra, Santiago Gamboa ci apre le porte sulla sua vecchia città, diventata irriconoscibile di notte, e sulle cose che sono successe, a se stesso e agli altri che l’hanno solo attraversata o continuano a viverla e che un dettaglio casalingo richiama alla memoria.
Un filologo quarantenne, probabilmente il parziale alter ego dell’autore, grazie a un consistente premio letterario in denaro riesce ad acquistare la casa in cui da bambino fantasticava di entrare e vi si trasferisce con la zia ormai vecchia, donna colta, estremista e raffinata, ex funzionaria ONU, che lo ha cresciuto, rimasto orfano, in giro per il mondo e gli ha offerto la possibilità – che un incendio infantile rischiava di negargli – di leggere e viaggiare e imparare.
Un romanzo fatto di ricordi personali e di presente clandestino, di reminiscenze e immaginazione, di nostalgia e di inganni che penetrano come fumo o come fantasmi attraverso le porte chiuse.
Gamboa ricorda l’iniziazione al sesso grazie alle teorie personali di un ingegnere polacco dedito alla cucina; dalla domestica Transito e dall’autista Abundio si fa spiegare quanto può essere ingrata la vita anche quando si sta dalla parte giusta e se possono esistere i miracoli quando si nasce dalla parte sbagliata. E soprattutto ricorda la figura della zia, le sue massime eleganti e tortuose, spunto di riflessione e di approfondimento, il suo amore per gli scrittori diaristi, per Anaïs Nin, Jünger e André Gide, l’affetto per Cuba e le critiche a Fidel fatte sottovoce.
Le pareti dello studio di Gamboa non raccolgono solo libri e fogli sparsi ma anche un piccolo frigobar che accompagna amori destinati a non durare, l’attrazione per un ideogramma cinese tatuato su una pelle giovane, una predilezione per le ore libere delle infermiere che assistono la zia, l’illusione breve di una piacevole eternità.
Come per provare a slegarsi silenziosamente da un passato di privilegi e cultura o per una semplice e morbosa curiosità, consapevole che è “inevitabile vivere voltando le spalle alla sofferenza della maggioranza della gente”, il protagonista, insieme al fedele Abundio, arriva ad addentrarsi nelle notti di Bogotà, nei mondi inquieti che vengono fuori solo con il buio, e finisce con il trovarsi in una città che non riconosce o che non ha mai conosciuto.
Nella Bogotà nottambula, muniti di parole d’ordine, è possibile imbattersi in tristi e anacronistici raduni neonazisti tra i quali sforzarsi di nascondersi; o in coreografiche e macabre danze con il morto, malcelate da un artistico omaggio al decesso. Ricordarsi della differenza tra i quartieri nord e sud della città, così evidente e radicale anche da lontano, dall’alto della finestra di una mansarda, dalla distanza giusta per far sembrare quelle zone un girone di Hieronymus Bosch; pensare come possano convivere quei due mondi. L’autore rievoca una delle vecchie incursioni sconfortanti e notturne nel quartiere di El Amparo dove incontra tossici fermi a fumare da una settimana, ragazzi senza sguardo, donne senza denti e dove capisce il senso delle parole della zia: “Il giorno in cui tutta questa gente deciderà di insorgere, verranno a fucilarci, e noi dovremo andare al muro senza protestare”.
Ogni passo è un pretesto per rievocare la bellezza dell’amore e la consapevolezza della sua brevità; per piangere morti erronee e insensate; per passeggiare per la propria casa e mettere su un disco dimenticato; per rimanere increduli di fronte a quella che pare sia diventata la realtà.
“Una casa a Bogotá” di Santiago Gamboa (trad. Raul Schenardi), Edizioni e/o, 224 pagine.
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