Fumetti
“Il diario della mia scomparsa”, la catarsi del folle alcolista
L’ironia sagace di Hideo Azuma è nota a molti. Famoso in Italia per C’era una volta… Pollon (Ochamegami monogatari korokoro Poron) e Nanako SOS (S O S), il maestro giapponese è sempre stato un frizzante narratore in grado di miscelare racconti pieni di sarcasmo con riferimenti sia alla cultura occidentale sia a quella orientale. Il suo Il diario della mia scomparsa (Shisso nikki), pubblicato in Giappone nel 2005 e vincitore del “Gran Guinigi per la riscoperta di un’opera” all’ultima edizione di Lucca Comics & Games, è un lavoro che dovrebbero leggere tutti gli amanti del manga.
Dovrebbero leggerlo perché si tratta di un’operazione che pare scontata ma non lo è: il processo attraverso cui sensei Azuma racconta tre momenti drammatici della sua esistenza mette infatti in risalto delle doti di autoanalisi non indifferenti. La cosa che colpisce più di tutte è la capacità di rendere la forma manga estremamente ambigua; nonostante si rida veramente molto, la tragicità degli eventi è lampante ed è impossibile che non riesca a far scaturire nel lettore riflessioni più o meno profonde sulla crisi provocata da una qualsiasi forma di dipendenza.
Ciò che Azuma ci racconta in questo suo personalissimo diario è in particolare riferito ad alcuni episodi di un periodo psicologicamente drammatico vissuto tra la fine degli anni Ottanta e la fine dei Novanta. È una fase critica della sua vita, nella quale abbandona la famiglia, scappa di casa, inizia a vivere come un senzatetto e si dà all’alcol. Quella che mette al centro è la sua figura, stilizzata, ma ricca di espressioni emotive che, nonostante il contrasto con una vivida volontà di ridersi addosso, emergono sempre più evidenti, definendo il carattere di un essere umano controverso che probabilmente non sarebbe mai riuscito a esprimersi senza l’aiuto di un’arte estremamente variegata come quella del fumetto.
Il diario della mia scomparsa è dunque un libro intenso, che racconta indirettamente il rapporto di una nazione e dei suoi artisti con l’arte del manga e con il suo sistema di produzione ossessivo e snervante, delle sue contraddizioni, ma anche delle possibilità infinite di sfogo dalle tensioni che essa può dare quando utilizzata in modo catartico e psicoterapeutico.
Nonostante tutte le vicissitudini, qualche anno prima di morire di un tumore all’esofago, sensei Azuma, durante un’intervista, a una domanda di Kiuchi Maya che gli chiedeva se avrebbe continuato o meno a disegnare manga, rispondeva: “È l’unica cosa che so fare, quindi mi sa proprio di sì”. Un apparente distacco emotivo che, come nel suo diario, mostra quanto importante sia stato disegnare la vita e la finzione sempre con ironia e grande arguzia.
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