Fotografia
Scianna: “Il bisogno di fotografia sopravviverà anche all’epoca dei selfie”
La prima volta che vidi una fotografia di Ferdinando Scianna avevo dodici anni. Era una fotografia scura, di nebbia e religione. Al centro una bambina, vestita da suorina, con un grosso crocifisso di legno al collo e una corona di fiori in testa. Le mani erano consegnate a due adulti, di cui si scorgevano solo gli abiti neri. In fondo, dove lo sguardo si sperde, ombre a disegnare altri crocifissi e preti. Sembrava un frammento della mia infanzia meridionale, la Taranto della Settimana Santa. Invece era Enna, sempre durante il periodo Pasquale. Il fotografo di quello scatto, autore di altre decine e decine di foto destinate a fare la storia, era Ferdinando Scianna che anche oggi, a settantadue anni, è una musica siciliana fatta di vocali aspirate e ricordi. “Quell’anno, era il 1964, a Enna c’era una nebbia incredibile – mi racconta Scianna – e quando arrivai ero disperato. Si vedeva poco, quasi niente. Pensavo che le fotografie sarebbero state un disastro”.
E invece non fu così.
Ma allora ero molto giovane, stavo cominciando a fare queste fotografie perché mi interessavano, volevo raccontare la Sicilia dove gli uomini sono isole dentro l’isola. E dove la religione è un momento in cui ci si incontra, ci si incontrava.
Nacque così Feste Religiose in Sicilia, che venne pubblicato nel 1965 con un saggio di Sciascia. Fu un successo. Adesso, a distanza di 14 anni, ripubblica invece l’intenso Obiettivo Ambiguo per i tipi di Contrasto. Come è cambiato, intanto, il mondo?
Non è più lo stesso. I giorni adesso scompaiono, cambiano le logiche, c’è stata l’esplosione dei social network. La relazione che abbiamo con la fotografia è diventata un’altra. Quel mondo antico che raccontai continua a esistere però nelle mostre, nei libri, nel lavoro delle persone.
A cosa era legato quel tempo?
Le cose non scompaiono facilmente. Le cose cambiano, ma non muoiono. Cambiano gli strumenti con il quale si realizzano, questo sì. Cambiano anche gli interlocutori, e il modo in cui le immagini vengono consumate.
E cosa non muta?
L’esigenza che gli uomini hanno di guardare il mondo per cercare di capirlo, e di scoprirlo. La necessità di salvaguardare la narrazione, e la memoria a cui sono legate le cose.
Cosa invece si trasforma?
Quelli che prima fotografavano il figlio alla festa di compleanno, adesso utilizzano il cellulare. Non si sono mai fatte foto private come adesso, eppure l’album di famiglia non c’è più. La foto adesso è la descrizione di un momento. Il presente è continuo, e la fotografia ne fa parte.
Siamo diventati all’improvviso tutti fotografi?
I linguaggi non si svalutano a seconda della loro democratizzazione. La fotografia appartiene ai fotografi perché la fanno, ma sono i fruitori i veri proprietari.
Non la inquieta proprio niente allora di quest’epoca moderna?
Una cosa sì: i selfie. Mi inquieta quando la fotografia viene usata come uno specchio per rimirare narcisisticamente se stessi, e non per guardare il mondo. Ma tramonterà anche questa moda. Un tempo la televisione era al centro del focolare domestico. Negli ultimi quindici anni è cominciato il suo tramonto. Dieci anni fa, una legge sui matrimoni non avrebbe avuto nemmeno una possibilità di essere approvata e invece adesso non è più così.
Lei che ne pensa di unioni civili e stepchild adoction?
Tutti hanno il diritto di avere delle opinioni etiche, a condizione di non imporle all’altro. Ormai sono un signore di settantadue anni, è difficile cambiare idea, abbandonare i pregiudizi. Sono a favore delle unioni omosessuali, naturalmente, anche se la questione dell’utero in affitto mi lascia perplesso.
Perché?
E’ solo a servizio di chi ha potere economico. E perché avere dei figli è un desiderio. Non può diventare un diritto.
Torniamo alla fotografia. Cosa cerca quando scatta?
Le mie gambe non ne vogliono più tanto sapere, e scatto molto meno. Cerco una relazione con il mondo. La fotografia è uno strumento. Mi serve per raccontare cosa amo, cosa detesto, le cose che mi incantano esteticamente, le cose che mi indignano moralmente e le cose che mi fanno pensare. Alla fine, provo a raccontare il mondo intorno a me.
Quando ha iniziato, cosa cercava?
Le stesse cose. La fotografia mi ha aiutato a sfuggire dal mio destino di ingegnere o di medico. Mi ha fatto provare le prime soddisfazioni narcisistiche.
Come scatta adesso?
Anche in digitale, perché il mondo cambia e bisogna andare con il mondo. E poi abbandonare gli acidi non è stato un dispiacere. Anzi.
Ritocca le sue foto?
No, passano attraverso il pc con il quale faccio lo stesso lavoro che mettevo in pratica nella camera oscura. Al massimo modifico i colori.
E cosa pensa di chi ritocca?
Sono perplesso e negativo. Penso che sia legittimo, ma non fotografico. Si tratta di una rottura con la cultura del documento e della memoria insita nella fotografia, che non dovrebbe avere niente a che fare con la tradizione del collage.
E adesso cosa prova quando fa una bella foto?
Le belle fotografie sono inutili. La buona fotografia, quella che ti fa pensare, è quella che serve.
Qual è la sua più buona fotografia?
Non lo so. Ho fatto più di 1 milione di fotografie. E il 99% mi fanno schifo. Sono frutto di una reazione fulminea con la realtà, sono l’impressione istintiva e momentanea. Quelle che ho salvato, magari mettendole in un libro, hanno un senso. Fotografando poi scopri che hai delle ossessioni, dei temi, delle cose che ritornano.
Quali sono queste cose?
Alcune sono di carattere formale, anche se non prettamente estetiche. Io sono un fotografo siciliano, e la luce in Sicilia è tutto. Anche per questo ho imparato a guardare il mondo attraverso una dialettica luce-ombra. Il sole mi interessa perché fa ombra. Io cerco l’ombra. Si tratta di una dialettica normativa, e anche morale. Un po’ come ne La luce e il lutto, di Bufalino.
E i temi?
Sono quelli che ho tradotto in libri. Le feste popolari, le persone che dormono, il cibo, le donne. Adesso sto preparando un libro sul gioco.
E cosa sta imparando?
Che la costruzione del mondo è sempre più simile a quella che avevo quando ero bambino.
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