Fotografia
Mikhailov, la bellezza e gli oppressi o la bellezza del terribile
« Seguo la Moscova
Giù fino al Parco Gor’kij
Ascoltando il vento
del cambiamento »
Se in musica i versi di “Wind of Change” degli Scorpions, ispirati da un loro concerto a Leningrado, narrano i cambiamenti politici in atto nell’Europa dell’Est, l’aumento della libertà nel blocco comunista, nonché l’incipiente fine della guerra fredda, in fotografia Boris Mikhailov narra quegli stessi eventi puntando l’obiettivo della sua macchina fotografica all’interno di una zona di cui ha profonda e intima conoscenza.
Uno dei più autorevoli fotografi contemporanei nato in Ucraina, Mikhailov, ingegnere che subito mostrò insofferenza a regole e divieti delle istituzioni sociali improntate allo stalinismo, esplora nelle sue serie fotografiche i profondi e traumatici mutamenti che hanno travolto, e che travolgono, il suo paese natale. Una contemporaneità, la sua, legata sia alle originali sperimentazioni sul linguaggio fotografico, summa di diversi tipi di linguaggio, dal ritaglio delle immagini fotografiche agli inserti pittorici sulle foto, dalle sovrapposizioni di negativi all’interazione di immagini e testi, ma soprattutto al modo impudente a volte beffardo con cui denuncia e innesca il dubbio sulla veridicità di quanto rappresentato e sulle convinzioni personali di ciascuno di noi.
Documento storico-emotivo di un popolo diviso tra opposizione e appartenenza, quello di Mikhailov è uno straordinario punto d’osservazione su un periodo storico che si snoda dal rivoluzionario ’68, anno del Maggio francese e della Primavera di Praga, fino ai più recenti accadimenti di una nazione dal peso rilevante sullo scacchiere degli equilibri geopolitici. Una narrazione che si dipana nella retrospettiva a lui dedicata al Camera di Torino, Centro Italiano per la Fotografia che, presentandosi come una struttura aperta alla fotografia nazionale e internazionale, fornisce uno stimolo al confronto e all’approfondimento della realtà attraverso le immagini.
“Superimpositions” corrisponde al debutto artistico di Mikhailov in cui, come il nome del progetto suggerisce, l’autore concepisce la sovrapposizione di diapositive assemblate su un unico telaio. Mikhailov non opera sintesi di immagini, non c’è taglio o cancellazione, procede per accumulazione, quasi a voler moltiplicare i dettagli per poter fornire quanti più indizi possibili per una decodifica della realtà dietro le apparenze. Al tempo stesso, l’accumulo sembra creare un distacco dalla realtà e l’immersione in un universo quasi favolistico a cui, però, la presenza del nudo femminile, di particolari dissacranti e di simboli propri del potere comunista non concede abbandono.
Più cruda e aderente al reale senza alcuna possibilità di fuga, è “Black Archive” che descrive la cupezza di un tempo, quello segnato dal regime comunista e di un luogo, kharkiv, centro di produzione di armamenti per l’ Unione Sovietica. Come suo solito, la ricchezza del dettaglio serve a rendere lo spettatore partecipe di una realtà cruda che si svolge sia in uno scenario pubblico che privato: la strada, palcoscenico su cui si esercita la maschera del comportamento controllato e convenzionale e la casa, luogo in cui lontano dalla sorveglianza, si dismettono gli abiti del perbenismo e si può esprimere la propria dirompente fantasia.
Come già in letteratura Orwell con “Animal Farm” prima e con “1984” poi, aveva esercitato la sua ironia verso l’egualitarismo stalinista e il totalitarismo sovietico che sopprimeva con epurazioni e processi sommari qualsiasi forma di dissenso, così in “ Red Series” e “Luriki”, attraverso una commistione tra arte concettuale e documentaristica, Mikhailov denuncia un sistema autoritario dove il rispetto di regole e divieti è assicurato dal rafforzamento della polizia e dalle grandi purghe. Con l’aggiunta del colore su negativi in bianco e nero, oltre a esprimere la sua ironia dissacrante, restituisce un’ immagine falsata e manipolata della realtà. Operazione quest’ultima che traspone nell’arte un espediente di propaganda tipico dei governi totalitari che imbellettavano agli occhi del mondo l’immagine di un proletariato soddisfatto della propria condizione. Un’ operazione, però, che risulterà fallimentare come suggerisce l’ossessività con cui ritorna il colore rosso invadentemente usato non solo su oggetti più disparati, ma anche sui corpi. Questi ultimi risultano stravolti talvolta in caricature somiglianti a marionette mosse da un potere che li domina, altre volte butterati, stigmatizzati dal male che, ribelle ad ogni contenimento, emerge in superficie.
Se in “Crimean Snobbism” i momenti di relax della borghesia ritratta in attività ricreative sembrano rimandare ad una realtà distante dalla depressione propria del periodo di transizione tra la fine del comunismo e l’avvento del capitalismo, “At Dusk” rivela, invece, con un occhio nostalgico al passato, la drammatica situazione successiva al crollo del blocco sovietico tanto da evocare un crepuscolo al posto dell’alba che l’indipendenza dell’Ucraina aveva, invece, fatto sperare.
Una situazione ancora più drammatica è ripresa in “Case History, presa diretta sulla realtà. Ispirandosi al “santo ver” di cui parlava anche Manzoni, egli si fa artefice di una storia di casi, archivio clinico di una malattia, quella che segna anime e corpi dei senza tetto, dei miserabili, specchio di rovina e disillusione di coloro che hanno perduto il senso di salvezza avvertito nell’ area sovietica post comunista. Una rovina scandagliata impietosamente e che si traduce in un degrado morale oltre che fisico, dove cicatrici e ferite parlano di una fatiscenza corporea profonda quanto la corruzione morale.
Dalla pacifica rivoluzione arancione di “Tea, Coffee, Cappuccino” che segna una più consolidata adesione al modello europeistico, capitalista e consumista con cui la plastica, grossolana e mediocre viene identificata, siamo trasportati poi, in piazza Maidan a Kiev che sarà il “ Theatre of War” tra le forze dell’ ordine e i manifestanti sostenitori dell’integrazione dell’ Ucraina all’ Unione Europea. La partecipazione dello spettatore è sollecitata dalla dimensione delle stampe, sebbene non siano gli scontri ad essere ripresi, ma i momenti di sosta, di tregua, che l’artista col suo umorismo dissacrante interpreta con i suoi interventi pittorici che modificano la realtà dei fatti e perciò la sua percezione.
Quello che rende grande l’ opera di Mikhailov, però, è la capacità di trascendere la realtà particolare in quanto la disintegrazione sociale conseguente alla fine dell’ Unione Sovietica è raccontata non solo in termini di strutture sociali, ma in termini di vite umane. Luogo geografico, l’Ucraina assurge a metafora di una condizione di vita, quello del diseredato, dell’oppresso, del senza tetto, per il quale la sofferenza non si traduce in leggi inique, ma nell’assenza delle stesse che lo tutelino. L’umanità che sfugge a volte per caso e spesso per scelta all’occhio umano, è quella che con sguardo felino e certosina pazienza, egli coglie nella sua più ruvida essenza.
La sua fotografia, contraltare artistico del grande romanzo russo di Tolstoj, Cechov e Dostoevskij, racconta il dolore, attraversandolo, aggirandosi tra le sue conseguenze. Egli narra i vinti della storia il cui anelito al raggiungimento di una migliore condizione economica e sociale incontrerà una dura sconfitta. In questo senso la disfatta di cui Mikhailov si fa portavoce è quella di intere generazioni di miserables, non ultime quelle che legano Maiden alle primavere arabe, diverse ma uguali nelle loro aspirazioni, come il titolo della mostra risalente al 1992 “Io non sono io” sembra suggerire. Generazioni di esseri umani che sognavano l’Europa e le cui giovane vite sono state recise insieme alla sete di cambiamento e al desiderio che una “balalaika possa cantare le cose che la chitarra vuole dire”.
Seppur non è camusianamente incentrata sull’ etica della rivolta, quella di Mikhailov è una galleria di ritratti fastidiosi a volte urticanti perché ci spinge a prendere coscienza delle brutture e sofferenze umane, a confrontarci con la tragedia della storia. Una storia troppo recente perché sia trattata in modo esaustivo dalle pagine di un libro e che ci arriva sotto forma di numeri il cui sacrificio non reclama giustizia, sono vuoti di vita, muti.
Devi fare login per commentare
Accedi