Fotografia

Henri Cartier-Bresson al Pan di Napoli: racconto di una mostra

1 Maggio 2016

Scattare una fotografia vuol dire trattenere il fiato quando tutte le facoltà convergono sul volto della realtà fuggente. È in quell’istante che padroneggiare un’immagine diviene una gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento.  È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere”. Eccola la maniera di Henri Cartier-Bresson, uno dei più celebri fotografi del Novecento. Il flâneur, l’occhio del secolo, la libellula, lo chiamavano amici e conoscenti. Spirito libero e rabbioso, curioso e cocciuto, fortunato e perspicace ha vissuto la vita in giro per il mondo (Francia, Spagna, Italia, India, Stati Uniti, Russia, tanto per citare qualche posto) a fotografare luoghi e persone, istanti decisivi che lui diceva anche combinazioni, colpi di fortuna. I suoi scatti straordinari nella loro genuinità e sobrietà, abbaglianti per la loro schiettezza e composizione, sono in mostra fino al 28 luglio 2016 al PAN (Palazzo delle Arti) di Napoli (qui le info dettagliate).

L’esposizione, dal titolo The Mind’s Eye, (proposta e finanziata dall’associazione ACM Arte e Cultura in collaborazione con la Fondation Henri Cartier-Bresson Magnum Photos, promossa dal Comune di Napoli, sostenuta dal Pastificio dei Campi e curata da Simona Perchiazzi) comprende 54 opere che ripercorrono l’esperienza fotografica di Bresson, dagli anni Trenta in poi.

Sono gli scatti che abbiamo visto riprodotti in giro (cartoline, locandine, ecc.) centinaia di volte e che risalgono agli anni in cui il fotogiornalismo era lontano e nella mente di Bresson c’era solo il desiderio di catturare la vita, l’anelito di tutte le cose, di conoscere e andare, muoversi, muoversi, muoversi. Per Pierre Assouline, giornalista francese, amico di Bresson che ha goduto del grande privilegio di potergli parlare per ore ed ore e non a caso autore del volume Cartier-Bresson. L’oiel du siecle, si tratta delle foto migliori, di quelle più spontanee e lancinanti.

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Il dubbio che attanaglia Bresson appena mette da parte la pittura per dedicarsi alla fotografia (solo la fotografia gli permetterebbe di macinare chilometri, di non ostacolare la sua natura di viandante) è: gli scatti sono arte? La risposta generale è: dipende. Nel caso di Bresson è: certo che sì. Quella che ghermisce lo sguardo è arte in bianco e nero. Ed è arte anche tutta la produzione fotografica dagli anni Quaranta in poi, periodo in cui la fotografia di Bresson si fa anche mezzo di informazione e di racconto, oltre che rappresentazione di un incanto.

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Dopo la Liberazione di Parigi e la fine della Guerra, nel 1947, Bresson, insieme ad altri luminari della fotografia (Robert Capa, Robert Capa, David Seymour, George Rodger, William Vandivert), fonda la cooperativa Magnum Photos, ancora oggi la più blasonata agenzia fotografica del globo. Cambiano gli accenti delle fotografie: raccontano modi di vivere e di essere nel mondo, stanno dentro la storia, ne indagano i protagonisti. Non cambia il metodo: sempre curioso, sempre interrogativo. E non cambia lo sguardo: rigoroso, ironico, beffardo, ammaliato, coinvolto. 

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Già lo sguardo. Da dove nasce? Dove alligna la sua fortuna? Per Bresson nella sensibilità. La sensibilità marca la differenza tra due fotografi, e non si impara, ce la si ha e basta, semmai si affina, si alimenta. Henri Cartier-Bresson, fin da bambino, l’ha fatto, assecondando il suo spirito iconoclasta, inviso ai genitori che lo volevano al timone delle imprese di famiglia. La lettura, la pittura, le frequentazioni giovanili dei surrealisti (paradossalmente nelle sue immagini così concrete, così vere c’è tanto dell’impronta surrealista) hanno sostenuto e indirizzato quell’occhio scippatore che attraverso l’obiettivo di una Leica ha ricalcato l’esistente. “La Leica era il suo oggetto mitologico: non se ne separerà più, all’aria aperta come nell’intimità. Per strada, a casa, fra la gente, ovunque e in ogni momento, perché non si sa mai. Sono abitudini da cacciatore di taglie. Sempre pronto a sparare, sempre in agguato, appostato” scrive Assouline.

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Bresson lavora anche per Vogue, Harper’s Bazaar, collabora con il cinema, gli dedicano mostre (famosa quella nel 1979 che esalta il campione del fotogiornalismo e del reportage). In questo periodo glorioso ha già rallentato il ritmo, è tornato a dedicarsi alla pittura, ma scatta comunque diversi ritratti che si aggiungono ai precedenti. La biografia di Bresson è disponibile on line, se non la conoscete. Averlo in mostra a Napoli è una fortuna e penso sia doveroso ringraziare chi si è impegnato per portare un artista di questa levatura in città, dove ultimamente il discorso sulla fotografia si sta vivacizzando parecchio.

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L’emozione provata davanti ai capolavori di Bresson ci spinge a dire che deve essere solo l’inizio. Vogliamo che a Napoli transitino tutti i più grandi fotografi del secolo scorso ed attuale. Se allo splendore si educa, ebbene noi vogliamo essere educati. Intanto, andate al Pan, non ve ne pentirete.

 

 

 

 

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