Fotografia

Gerda Taro, la prima fotografa caduta su un campo di battaglia

5 Ottobre 2017

«Meglio ridere: allora come dopo, a Lipsia come a Parigi. Meglio togliere gravità alla sventura che trovarsi intrappolati ancora in discussioni rese assurde dalla soppressione hitleriana di tutta la sinistra, che tuttavia si riaccendevano ovunque: nelle associazioni e redazioni in esilio, nelle ex caserme adibite a dormitori per l’accoglienza dei profughi, in fila alla préfecture o nelle mense solidali dove socialdemocratici e comunisti stringevano la stessa scodella sbeccata dei primi smarriti esponenti della borghesia ebraica». In La ragazza con la Leica (Guanda) Helena Janeczek racconta sì la vita e la morte di Gerda Taro e il suo amore/avventura con Robert Capa, il più grande foto-giornalista di sempre – ed è, va detto, un ritratto davvero preziosissimo – ma ci fa soprattutto assaporare e entrare in un mondo tragico e affascinante, gli Anni Trenta, tanto luttuoso quanto idealista e coraggioso, oggi per certi versi così “mancante”. Onore dunque a Gerda, vero nome Gerta Pohorylle, fotografa schiacciata dai cingoli di un carro armato nel 1937, pochi giorni prima di compiere 27 anni, in una strada polverosa di Brunete, piccolo comune dove si combatteva fino all’ultimo sangue durante la guerra civile spagnola. Giovane donna piena di vitalità, cocciuta e frivola, tedesca di famiglia ebrea polacca (origini che condivide con l’autrice del romanzo) morì per non aver voluto abbandonare il fronte quando non c’era più alcuna speranza, e testimoniò fino all’attimo per lei fatale l’enorme delitto che è la guerra. Una esistenza dedicata a un compito di infinita dignità, a una giusta causa persa.

Gerda rappresenta, anzi è, il rimpianto. Soprattutto nei ricordi dei tre personaggi che nella storia di Helena Janeczek la raccontano: Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, con cui ha condiviso i tempi più duri a Parigi dopo la fuga dalla Germania; Willy Chardack, detto Il bassotto (poi inventore del pacemaker), che si è accontentato del ruolo di cavalier servente da quando la esile e desiderabile e volubile ragazza ribelle gli ha preferito Georg Kuritzkes, impegnato a combattere nelle Brigate Internazionali. Gerda, la-compagna-di-Robert-Capa. Non la “donna di”, la compagna, allieva e rapidamente eccellente collega, amante appassionata e allegra, musa, pigmalione del proprio alter ego. Un talento incredibile, mai si sentì vincolata dal suo essere femmina, libera in una Europa difficile, libera come ogni donna avrebbe il diritto di essere. Si incontrarono a Parigi, si punzecchiarono, si studiarono, si scelsero, si vollero, probabilmente si tradirono, si amarono alla follia, scintille e turbinio di energia, speranza, disillusione, eros, vitalità, gelosia, divertimento, visionarietà. Gerta Pohorylle e Endre Ernő Friedmann, due ebrei in fuga nell’era nazifascista. Come ha scritto qualcuno, «inventarono i loro nomi e scrissero le loro vite non consentendo ad alcuno di farlo al posto loro».

Gerda fu la prima fotografa caduta su un campo di battaglia. E poi… «Procedevano con la lentezza inesorabile delle sfilate mastodontiche… attraversando place de l’Opéra, imboccando scorci di Grands Boulevards… nei vialetti interni che portano ai Caduti della Comune. Intorno alla tomba si espandeva una calca ingombrata di striscioni e bandiere rosse che rendeva invisibile chi prendeva la parola. Le masse operaie puzzavano di sudore, ma ancora più puzzavano le corone e i mazzi di fiori già appassiti da ore di cammino sotto il sole… Qualcuno ricordava che quel giorno, 1° agosto 1937, avrebbe compiuto ventisette anni “la nostra Gerda”, la coraggiosissima compagna che aveva dato la sua giovane vita per una lotta a cui sapeva appartenere il futuro di tutti». Capa piangeva con una straziante inerzia orientale. Poi il padre di Gerda era avanzato verso il feretro e aveva cominciato a recitare il kaddìsh, la preghiera ebraica per i defunti. Qualcuno gli era andato dietro, yitgadàl v’yit-kadàsh sh’mei rabbà. La schiena che si agitava, il dondolarsi liturgico verso la bara allineata ai binari, ricordava i movimenti di un ossesso. Il signor Pohorylle si era fermato di colpo, era barcollato in avanti, si era accasciato. Aveva terminato il kaddìsh riverso sulla bandiera rossa di seta morbida che avvolgeva le spoglie di sua figlia. «Sarebbe crollato anche Capa, in quel momento, se l’amico al suo fianco non se ne fosse accorto. Willy li aveva visti l’uno abbrancato all’altro, e gli era parso di rivederlo quando litigava con Gerda, lei lo metteva alla porta e Seiichi doveva trascinarlo a casa ubriaco fradicio».

Sì, La ragazza con la Leica è bellissimo e commovente. Per chi ha amato e ama le istantanee di questi due eccezionali fotografi è un dono immenso, di cui ringraziare Helena. Che è riuscita a tenere insieme epoche e luoghi lontani, ridando vita a quei ragazzi degli anni Trenta alle prese con la crisi economica, l’ascesa del nazismo, l’ostilità verso i rifugiati che in Francia colpiva soprattutto chi era ebreo e di sinistra. Così la Spagna che provò a resistere al nazismo e al comunismo stalinista è dentro di noi (almeno alcuni di noi); noi siamo lì accanto a lei, o avremmo voluto e vorremmo esserci, accanto a una giornalista, a una donna che aveva fiducia nella possibilità di raccontare, «perché la conoscenza può non evitare il dolore, può non fermare una guerra, ma aiuta a scegliere da che parte stare e cosa essere». La sua agonia durò una notte intera, una notte nella quale più che per la sua vita si preoccupò che le macchine fotografiche non si fossero rotte e che le foto fossero in salvo.

«Una coppia bellissima, due persone votate l’una all’altra, due persone innamorate”, scrisse Rafael Alberti quando li ospitò alla Casa de Alianza di Madrid, nel 1937, sotto le bombe franchiste. E in una celebre foto di due anni prima li vediamo precisamente così, cinguettanti, seduti vicini vicini nel dehors del Café du Dome a Parigi, sorridenti, eleganti, ammiccanti. Belli da morire. Alle loro spalle, tra camerieri indaffarati, un signore osserva il loro flirt con un sorriso indulgente. Li ha sorpresi così, di nascosto, un collega fotografo, Fred Stein. E un Capa inconsolabile porterà questa foto in tasca per quasi vent’anni, fino alla sua morte tragica, saltato su una mina in Indocina.

Amèn.

 

 

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