Filosofia

Vico dei miracoli secondo Veneziani: la Provvidenza nella storia dell’uomo

11 Settembre 2023

Marcello Veneziani ha dato alla luce un altro bellissimo libro, “Vico dei Miracoli. Vita tormentata del più grande pensatore italiano”. Si riferisce a Giambattista Vico, il filosofo napoletano de “La Scienza Nuova”.

A noi piace Veneziani quando scrive di filosofia, perché è il mare nel quale sa nuotare con disinvoltura: ad una preparazione indiscussa sulle fonti e sulle interpretazioni critiche, annoda una scrittura piana, asciutta ed inclita, perché la sua sinonimia ed il periodare sciolto e fluido la fanno lirica.

E Veneziani con Vico dimostra anche un affetto particolare: nell’ultima pagina del libro c’è il peculiare ringraziamento a suo padre, il quale gli aveva regalato a lui, suo figliolo, proprio “La Scienza Nuova” raccomandandosi che leggesse quel libro con cura.

Per Veneziani Vico è uno dei filosofi più importanti d’Europa: non è stato amato in vita, ma la sua filosofia è stata scoperta e rivalutata nel’800 e nel ‘900, se solo si pensa ad Hegel e Benedetto Croce, il quale, come noto, ne scrisse un libro magnifico.

Ma Veneziani è andato oltre: è sceso a Napoli, ha camminato ed indagato nei vicoli della lunga arteria che spacca la città -via dei Tribunali, I Decumani- e si è come un cronista calato in quel tempo, negli anfratti delle vie e delle traverse per capire come ha vissuto e dove ha patito Vico, attesa la sua povertà di famiglia ed un ruolo sociale giammai riconosciutogli neanche nell’ambiente universitario, perché osteggiato dai suoi colleghi.

E si immedesima in questo racconto che assurge a romanzo sino al punto di utilizzare anche la lingua napoletana, con espressioni vernacolari divertite e ben riuscite.

Sappiamo dal cronista Veneziani che Vico nasce in una modesta famiglia: il padre era un libraio e la sua bottega-libreria si trovava a San Biagio dei Librai, oggi al suo posto amaramente c’è una friggitoria.

La Scienza Nuova” fu conclusa il Lunedì dell’Angelo del 1730. Questa edizione -ve ne furono altre precedenti- fu iniziata nel Natale del 1729 e terminò per un progetto ed un volere di Vico proprio nella Pasqua dell’anno successivo.

Ma per editare quest’opera non aveva trovato alcun sostegno e fu Vico stesso a ricorrere ad un pegno usuraio: la cosa più preziosa che aveva in casa -l’anello di famiglia, con un diamante di cinque grani d’acqua purissima- fu dato in garanzia per ottenere il finanziamento necessario per pagare gli stampatori. “L’immagine di Vico col cappello in testa, la mantellina sulle spalle e il manoscritto sotto il braccio, che va a bussare alla casa dell’usuraio, affacciato alla finestra accanto alla porta, con lo zuccotto in capa e gli occhiali tondi, fa impressione” scrive Veneziani.

Ci ricorda Veneziani che da piccolo cadde da una scala nella libreria del padre e fu di salute cagionevole: ebbe la tisi e dai suoi detrattori fu apostrofato come Tisicuzzus.

Nasce come avvocato e svolge la sua pratica all’ombra dell’avvocato Fabrizio del Vecchio.

Volle difendere suo padre in un contenzioso quando era ancora precocissimo davanti al Sacro Consiglio, al cospetto del commissario relatore, Geronimo Acquaviva, per una lite con un libraio più importante, ma meno onesto, di lui, Bartolomeo Nicola Moreschi.

Giambattista vinse la causa, salvò suo padre.

A diciott’anni Giambattista Vico frequentava assiduamente le biblioteche, ma anche le librerie del centro di Napoli, ben più fornite della modesta bottega di suo padre. Nella libreria di un francese fece un incontro che si rivelò fondamentale per la sua vita e la sua formazione. Ebbe modo di conoscere il vescovo d’Ischia, monsignor Geronimo Rocca, illustre giureconsulto che lo aveva ascoltato al foro quando aveva difeso suo padre. Il monsignore era rimasto impressionato dal suo acume e si era congratulato con lui, che così giovane e senza titoli aveva vinto la causa. Ritrovandolo ora in quella libreria prese a ragionare con Giambattista di diritto e il discorso scivolò su come insegnarlo ai giovani. Vico colpì ancora monsignor Rocca per il suo ingegno vivace, la sua precoce saggezza e la sua impronta d’umanista, non limitato solo alla conoscenza delle leggi; così il prelato gli propose di andare a far da precettore ai suoi nipoti, in un castello del Cilento, a Vatolla, che definì «di bellissimo sito e di perfettissima aria». Il signore del castello era il fratello del monsignore, don Domenico Rocca, che lo avrebbe trattato come un figlio, gli disse.

A Vatolla Vico non fu solo precettore laico dei figli del signore del castello, don Domenico; ma imparò, studiò, andò all’università di Salerno, dove si laureò, pur senza frequentare i corsi; lesse autori che si sarebbero poi rivelati fondamentali per i suoi studi: Ricardo, Sant’Agostino, Lorenzo Valla, Cicerone, Virgilio, Orazio, l’amatissimo Lucrezio e ancora Omero.

Vico scoprì nella biblioteca cilentana Platone, che restò per lui il principe dei filosofi divini.

Si innamorò anche della bella Giulia figlia di Domenico Rocca, ma fu un’infatuazione.

I suoi primi due autori preferiti furono Platone e Tacito, questi «contempla l’uomo qual è, Platone quale deve essere». Poi verrà la scoperta di Bacone, «raro filosofo e gran ministro» d’Inghilterra.

Oltre la biblioteca di casa Rocca, Vico accedeva alla ricca libreria dei padri minori presso il convento locale, dove leggeva Boccaccio, Dante e Petrarca, Virgilio.

Giambattista andava al convento francescano annesso alla chiesa di Santa Maria delle Grazie e dalla biblioteca conventuale prendeva in lettura i libri, che i frati gli davano volentieri non solo perché era considerato il figlioccio del marchese, ma anche perché quei libri non li chiedeva mai nessuno, lui era scrupoloso e li restituiva in breve tempo.

Giambattista leggeva in convento solo quando faceva troppo freddo o pioveva; col bel tempo preferiva leggere sotto l’ulivo; per la precisione, il quarto della fila davanti al convento.

Era il suo posto, lo sapevano bene i frati e chiunque passava di là.
A lungo, dopo che andò via, restò l’albero di Vico.
Quando tornò a Napoli non riuscì a vincere il concorso per la cattedra di diritto civile e ripiegò per quella di retorica che si aggiudicò.
A Napoli si sentiva un «forestiero nella sua patria».

Si sposò, ma non fu felice neppure nel seno della sua famiglia: un suo figlio fu astretto nelle patrie galere.
Non amava la filosofia Cartesiana e ne fu fiero oppositore.

Cartesio sosteneva, come noto, che si poteva provare l’esistenza dell’uomo per il sol fatto che l’uomo è pensiero: cogito ergo sum. Ma era una proposizione intollerabile, perché il cogito spiega l’esserci, non l’essere.
Cartesio insomma constata l’esistenza, non descrive, di converso, la causa dell’essere che si individuano nella Provvidenza che lo crea.

Scrive Veneziani: «Vico corregge Cartesio: non «penso dunque sono», ma «qualcosa pensa in me; dunque, è… ciò che pensa in me dev’esser una mente purissima, cioè Dio». La comprensione di tutte le cause, ritiene Vico, è in Dio.

 Vico era amato dai suoi studenti ai quali trasmette l’amore per la filosofia.

Ecco il suo pensiero sulla “scienza della meraviglia”:

«Se ti sei dato alla filosofia, ascolta Platone, che discute intorno all’immortalità dell’anima, intorno alla forza delle idee divine, intorno ai generi, a Dio sommo bene, intorno all’amore che egli libera dalla feccia della libidine; ti renderai conto che egli meritò con pieno diritto l’appellativo di “divino”. Ascolta quanto gravemente e con quanto rigore gli Stoici insegnino la fermezza del sapiente e tu stesso li dirai rigidi e severi custodi della virtù. Ascolta Aristotele, con quanta penetrazione abbia abbracciato tutta la facoltà del ragionare… Considera con quale sentimento egli tramandi i principi dell’oratoria e della poesia. Esamina il suo compitissimo sistema intorno alla filosofia dei costumi, e riconoscerai il carattere miracoloso di quell’ingegno».

Questo libro diventa prezioso quando Veneziani si diffonde a spiegare il capolavoro di Vico, la Scienza Nuova.

Scrive Veneziani:

«La scienza nuova è un’opera aperta che nasce, cresce e si modifica nell’arco di una vita, a cui l’autore sempre ritorna, come alla ragione della vita sua, alla fonte di tutto quel che poi resterà di lui; un cantiere in elaborazione perpetua. La scienza nuova nasce e rinasce nove volte, se non di più. Tre sono le edizioni conosciute, ma ci sono altri sei embrioni che la precedono o la affiancano.
È un’opera unica, inimitabile in cui convergono saperi diversi che si intrecciano: storia e filosofia della storia, archeologia e antropologia, filologia e letteratura, scienza e diritto. Più un filo sommerso, la poesia, e un filo verticale, la teologia.
Immaginate La scienza nuova come una mano aperta: il pollice è una storia ideale eterna e universale su cui sorge il diritto naturale delle genti al lume soprannaturale. L’indice addita una teologia civile ragionata della Provvidenza divina che interviene e indica un fine alla storia. Il medio è la filosofia dell’autorità che lega la legge divina alla legge umana fondata sul certo. L’anulare è una storia generale delle scienze umane e delle idee che si sposano coi fatti. Infine, il mignolo, più sottile, filosofico, penetra nell’orifizio della verità e ne coglie quantomeno il senso, non potendo coglierla per intero. La mano intera è divina, guida gli uomini e alla fine ci mette nelle mani del Signore».

Comprendiamo grazie a Vico che l’uomo è artefice di ciò che produce, di quello che fa: e si comprende che il fatto sia vero: verum  ipsum  factum.

Da qui il valore della Storia, ma anche il suo principio informatore che muove la vita degli uomini: la Provvidenza.

Anche Alessandro Manzoni deve tributo al filosofo napoletano.

Vico espone la legge che governa la storia del mondo: l’uomo fa la storia ma i suoi esiti finali non dipendono da lui. C’è una saggezza superiore del mondo, al di là dell’astuzia della specie e delle intelligenze singole, che orienta e dirige il cammino storico, senza che gli uomini se ne accorgano o possano interferire. Vengono adoperate le volontà individuali per ottenere risultati più grandi, generali. Oltre la storia c’è dunque una mente divina che governa il mondo, di cui noi siamo parte pur minima.

Hegel parlerà di astuzia della Ragione e spiegherà la sua eterogenesi dei fini: ma prima di lui lo aveva già detto Vico.

L’ultima volta che Vico prese in mano la sua Scienza nuova era il giorno di san Giovanni del 1743.

Di lirismo puro è la descrizione della sua ultima lezione che Veneziani immagina così sontuosamente:

«Ce lo ricordiamo quanno traseva in aula ’o professore. A testa bassa, e passi brevi, auribus demissis, diceva lui, con le orecchie basse come nu ciucciarello mortificato. Lasciava a lato della cattedra il bastone e il cappello e andava a sedersi. Noi ci alzavamo in piedi quando saliva in cattedra e lui senza guardarci ci diceva, a bassa voce: «Assettateve». Poi apriva il quaderno, i fogli d’appunti volavano e lui si chinava con fatica a raccoglierli. Sistemati i fogli, ci guardava, e il suo sguardo era tenero e malinconico, i suoi occhi lucidi e parlanti. Guardava e taceva. Poi cominciava la lezione, e mentre parlava s’illuminava il volto, il biancore della sua faccia, un po’ patita, cominciava a splendere; era brutto e vecchigno, e le parole lo facevano bello e raggiante; si trasformava. Era minuto e curvo, ormai, ma i suoi pensieri lo facevano grande e alto, nu colosso, quando pensava ad alta voce. E anche la voce, dapprima flebile, si faceva più forte, come se parlando trovasse una fonte nascosta d’energia. Lasciavano segni le sue lezioni in noi allievi, come sa fare un vero insegnante. Era un educatore vero, sì, ci conduceva in alto, ci traeva dall’oscurità. Il maestro dialogava coi grandi, da Platone a Tacito, da Bacone a Grozio, parlava la lingua degli antichi e il tempo spariva, si fermava in un’ora fuori dal tempo, oltre lo spazio dell’aula; perdevamo il senso delle ore, dei giorni, dell’epoca in cui vivevamo, ad ascoltarlo. Ci portava allo struscio lungo i secoli, tra mondi remoti, ci portava nei cieli e poi dentro di noi […]. Finita la lezione riprese il bastone e il cappello, e tornò piccolo, a testa bassa, così come era entrato; gli tornarono malinconici i suoi occhi bassi, spenta la voce, le orecchie di nuovo afflosciate sotto le falde del cappello. Andava verso la porta come se si avviasse verso l’ultima soglia, la morte, l’immortalità. Quando uscì dai nostri sguardi, capimmo che non l’avremmo più rivisto.
Quando sparì dall’aula, dopo la sua ultima lezione, si spalancò un vuoto nei nostri cuori di allievi che nessun docente seppe poi colmare. La sua presenza esile e dimessa non riempiva l’aula, ma la sua assenza lasciava un vuoto gigantesco. Sapevamo che non sarebbe più tornato. Questo educatore ci insegnava davvero come l’uom s’etterna. ’O professore era nu gigante, pure se parev’ piccirelle».

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.