Costume
Vacanze: dell’essere e dell’andare
Caro Cigno Nero,
siamo alla fine delle vacanze, autunno alle porte e giornate più corte, ed ecco che sui media si parla di “Post Vacation Blues”, o sindrome da rientro. Così come all’inizio dell’estate ci bombardano di consigli su come affrontare il caldo, adesso si preoccupano di dirci come affrontare di nuovo la routine. Personalmente non mi sono mai posto il problema, ma in effetti tutto questo parlarne mi sta mettendo ansia. Eppure l’inverno non mi è mai dispiaciuto, anzi, trovo che come un lungo sabato del villaggio sia fondamentale per godere maggiormente del ritorno dell’estate.
Ora mi chiedo e ti chiedo: perché saltano fuori queste sindromi? Perché non riusciamo più a goderci il ritmo delle stagioni? Ma soprattutto perché perfino la vacanza diventa un problema? Perché per la paura del domani non riusciamo più a goderci l’oggi?
grazie,
Albert
Caro Albert,
metti a tema una sindrome che si porta descrizione, causa e sintomo già nel nome, così, la fine delle vacanze (post vacation) genera questo senso indecifrato di tristezza (blues), che dicono si dispiegherebbe in manifestazioni di apatia e spossatezza, irritabilità e inappetenza, depressione e ‒ neanche a dirlo ‒ ansia.
Già nel 2019 “The Mirror”, la nota testata britannica, rilevava che il 57% dei viaggiatori inglesi ne fosse vittima.
Prima però che la Post Vacation Blues venisse registrata all’anagrafe dei disagi contemporanei, siamo così sicuri di non aver mai avvertito niente di simile nel mese di settembre?
Non ci dicono nulla di già vissuto quel vago magone nel disfare la valigia, il sapore amaro delle lacrime trattenute nel congedarci dalle “bellissime” persone conosciute in vacanza ‒ chissà poi com’è che in vacanza incontriamo solo persone meravigliose! ‒ , il groppo in gola mentre ammiriamo estaticamente le conchiglie che ci siamo portati dietro in ricordo di quella spiaggia paradisiaca? Non possiamo propriamente definirle sensazioni piacevoli, ma possiamo ben dire che tutto questo era poetico, e ‒ aggiungerei ‒ forse lo era proprio perché non era schedato, cioè non aveva un nome. Così, una volta a casa, restavamo per qualche giorno come scollati dalla vita intorno che viaggiava sul solito ritmo; rimanevamo un poco in disparte ad ascoltarci questo “blues interiore”, e andava bene così: piano piano avremmo risalito la china, l’inverno sarebbe arrivato, esattamente come la prossima estate.
Abbiamo già detto altrove che dare un nome alle cose significa in qualche modo farle esistere, ma il punto è che spesso noi le facciamo esistere per ricondurle alla sfera del noto, così da poterle controllare meglio.
Ecco allora che abbiamo trasposto le note di questo melanconico “blues” sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, lo stesso che produce gli ormoni dello stress, con tutti i contraccolpi che ne conseguono per l’organismo. L’effetto sonoro che ne deriva è molto più chiaro, ma certamente più sintetico e meno sentito. Insomma, è perfetto per i media, che colgono la palla al balzo e sciorinano un corredo di rimedi, convergenti sostanzialmente nell’invito a una ripresa graduale del ritmo “invernale”, da interpretarsi in maniera più o meno creativa perché arricchita di escamotage a dir poco originali: dallo stilare una lista dei momenti memorabili della vacanza al massaggiare il viso con la pietra gua sha.
E questa mania di controllo stride così tanto con la poesia del blues, ma non troppo con l’idea di vacanza che abbiamo oggigiorno.
“Vacanza” viene dal participio presente “vacans”, come “essere vuoto, libero”. Assomiglia a un dolce sbandamento che non conosce bene direzione né posizione, a un nomadismo che accosta quel “vacare” a un “vagare”, sia anche solo per assonanza.
E “vacans” sta anche per “mancante”. Pensiamo al lavoro: un posto “vacante” è “mancante”, perché è sì un posto libero, ma senza essere libero di essere libero, perché dichiara l’urgenza di essere riempito.
Forse è un po’ anche qui la ragione ‒ considerato cioè il valore capitale che diamo al lavoro ‒ per cui il significato della vacanza è scivolato in questa direzione della mancanza: così, in un periodo che dovrebbe essere dedicato al benefico ozio, sembriamo tarantolati, e prendiamo ad affastellare programmi, attività ed escursioni per saturare compulsivamente ogni momento vacante della nostre giornate.
C’è poi un altro fatto, ancora più strano: non sentiamo più parlare dell’ “essere” in vacanza, ma solo, rigorosamente, dell’ “andare” in vacanza. “Quest’anno niente vacanze!” diciamo paradossalmente nelle tre settimane libere dal lavoro, se non abbiamo avuto la possibilità di partire e siamo rimasti nel nostro paese, tra una banale uscita fuori porta e una genuina cena con gli amici. Vacanza, insomma, è ormai sinonimo di “viaggio”, in barba a chi questo fantomatico viaggio non può permetterselo.
Viviamo infatti una contemporaneità che sventola la bandiera della globalizzazione come libera circolazione, ma preclude il nomadismo: la facoltà economica, fisica e mentale di spaziare, toccando Paesi differenti magari nell’arco della medesima giornata, è privilegio di pochi. Sono numerosi i dispositivi in atto perché danzare sul confine risulti sempre più impraticabile, dalla negazione di un passaporto all’inibizione dell’autonomia di pensiero, passando per una fisicità dimenticata a favore di meccanismi ingabbianti e densi di necessità.
Bruce Chatwin, viaggiatore singolare e pensatore outsider ‒ come lo definisce Trentadue ‒, ci invitava al “bagaglio leggero”, da intendersi anzitutto nel senso delle cose e del possesso, in totale dissonanza con le miriadi di outfit che pressiamo dentro le nostre valigie. Per Chatwin sono la ricchezza e gli averi a renderci stanziali, perché richiedono “cura costante” e “sorveglianza assoluta”. Drogati di questa avidità, non possiamo che restare, anche quando andiamo, disattendendo quell’irrequietezza che è nostro tratto peculiare e chiede di essere assecondata. Non facciamo che restare quando beviamo il mojito che tanto ci piace nel villaggio turistico all’altro capo del mondo; non facciamo che restare quando scegliamo l’ultima meta in voga in cui già sappiamo ritroveremo lo stesso tipo di persone che abbiamo lasciato. Non facciamo che restare quando spendiamo il tempo a postare foto che ci ritraggono innanzi a questo o quell’altro paesaggio insolito, perché vuol dire che la nostra mente non ha seguito le nostre gambe, che il nostro pensiero è rimasto a casa ‒ che sia quella reale o virtuale poco importa ‒ e non si è mosso di un centimetro: in primo piano ci siamo sempre noi, e tutto il resto è solo uno sfondo da cartolina. La verità, direbbe Chatwin, è che non siamo mai partiti. Non basta cambiare cielo, scriveva Seneca, bisogna cambiare anima. Dove vai se ti porti in giro te stesso? continua citando Socrate. Già, perché il bagaglio leggero è anche nel senso dell’essere. E invece il meticoloso resoconto per immagini sul nostro profilo si illude che l’accumulo di dati su sé stessi possa fabbricare un’identità più solida e rispondere al bisogno tutto autoreferenziale di dire e confermare “io sono”, secondo il culto di una individualità rassicurata perché “cosizzata”, zavorrata e riconoscibile.
E poi torniamo a casa, ma non come Ulisse, che a Itaca trova il senso radicale del suo divenire perché quel viaggiare è stato autentico, come un “uscire fuori da sé stessi per ritrovarsi in maniera diversa”, per dirla con Bodei. Allora, forse, la Post Vacation Blues ha il sapore amaro della consapevolezza di aver perduto un’occasione, replicando quell’identico che ora il mese di settembre ci comanda, quando invece avremmo potuto sovvertirlo. Se solo…
A proposito delle vacanze, la filosofia antica ci insegna l’importanza dell’ozio come momento di libertà e leggerezza del pensiero, che non è più occupato, né distratto altrove. Noi lo vediamo come un inutile vuoto, come una perdita di tempo, a differenza delle vacanze, che invece sono zeppe di programmi e nuove esperienze. Che ruolo gioca questa nostra incapacità di oziare rispetto alle tue domande su un tempo che non riusciamo più a goderci?
Irene Merlini
Devi fare login per commentare
Accedi