Filosofia
Una connessione mancante c’ingoierà. (Ancora sui seggiolini anti-abbandono)
È entrato in vigore lo scorso 7 novembre, in anticipo sui tempi preannunciati, il decreto attuativo sull’obbligo dei dispositivi anti-abbandono per tutte le vetture con a bordo bambini inferiori ai 4 anni.
Senza inoltrarsi nelle polemiche immediatamente generatesi in relazione alla brusca anticipazione dei tempi, alla mancata diffusione delle corrette ed esaustive informazioni sull’acquisto, dei criteri di omologazione e dell’agevolazione di cui le famiglie potrebbero beneficiare, ripetendo così il copione di lagnanze cui abbiamo assistito in questi giorni, quanto questo pezzo intende offrire è una brevissima rilettura dell’accaduto in termini culturali e filosofici.
Che sia un cuscinetto da apporre sotto la seduta del bambino, un dispositivo che manda segnali acustici via App o Bluetooth, oppure un seggiolino direttamente provvisto nella sua stessa struttura di sensori antiabbandono, quello che la legge 117/2018 rende obbligatorio è la dotazione di un apparecchio anti-dimenticanza del minore.
Progresso o regresso? C’è nelle imposizioni di questa norma, così come nelle sanzioni amministrative previste, una preoccupante logica del supporto alle umane funzioni della presa in cura. Uno scacco evidente all’istinto di protezione e tutela della prole che ci accomunava ad altre specie animali. L’imperfetto è assolutamente pertinente. A partire da alcune disgraziate storie di cronaca nelle quali il genitore, dimentico del bambino lasciato in auto, cominciava le sue consuete attività quotidiane, si è come declinato il concetto di attenzione per il piccolo in un ché di residuale, un “se tutto va per il meglio, mi ricordo di mio figlio!”
I conati mentali di ordinazione delle cose da fare e la caterva d’impegni da espletare sono diventati nelle fila del problema il “ciò nonostante” che fa da contraltare alla tutela del bambino. La cura, in quanto concetto biologico, sta attraversando nell’ambito dell’umano un evidente svilimento intenzionale e depotenziamento pratico. Vedere la legge intervenire a gamba tesa a rimedio di ciò desta non poche perplessità. Tanto più se la modalità con cui progetta e rende esecutivo il suo intervento è una riscrittura artificiale della cosa su delega esplicita alla tecnologia. Un riarrangiamento biotecnologico, nel quale sparisce completamente ogni sostrato naturale e spontaneo.
Nel suo Essere e tempo Heidegger ha scritto pagine importanti in proposito. La cura, è nella sua struttura totalizzante, una costante tendenza verso l’altro, al punto da poter affermare che non è tanto l’esistenza a sostenere e spiegare l’inclinazione curativa, ma quest’ultima a dare significato all’esserci stesso. Heidegger parla dell’argomento attraverso la formula dell’“essere-presso”, proprio per sottolineare che il rapporto con l’altro non si esplicita nei termini di una giustapposizione, ma di un reciproco conferimento di senso ontologico. Un appello alla condizione autentica di ogni esistenza.
Adattare la cura alle contingenze dell’esistenza significa non comprendere che i due concetti, lungi dall’essere differenti e ben distinguibili l’uno dall’altro, sono in realtà coincidenti. Trapela da questi paragrafi di Essere e tempo un invito implicito a deturpare e alterare il meno possibile il valore del prendersi cura come elemento costitutivo di ogni datità ontologica. Heidegger non può evitare di correlare questo concetto a quello primordiale dell’essere, che una volta “gettato” nel mondo, è immediatamente di fronte all’orizzonte delle sue possibilità. È in questo senso che sottoporre la cura a un confezionamento esteriore, ovvero a una manipolazione in base all’occorrenza, conduce in modo diretto alla sua de-autentificazione: la cura cessa cioè di essere la priorità di ogni possibile.
Trasferite queste riflessioni filosofiche dai ranghi dell’astrazione, dove per “l’altro” s’intende il “tu” generico di ogni relazione, al contesto concreto del rapporto genitore-figlio, il discorso assume uno spessore eminente e autorevole, essendo la cura del figlio l’espressione della cura per antonomasia.
Se le basi generiche dalle quali prendono avvio queste affermazioni sono di natura evidentemente biologica, è estremamente paradossale rilevare l’inversione di tendenza antropologica. In questo ambito, infatti, non solo si è verificato uno “scollamento” tra il concetto di esistenza e quello di cura, ma anche una dilatazione della loro distanza: a riempire lo spazio vuoto è stato invocato, come si è visto, l’intervento tecnologico, con le sue capacità di correzione e compensazione delle mancanze umane.
A ben guardare, la celerità con cui è divenuto attuativo il decreto sull’obbligo dei dispositivi anti-abbandono non fa che ricalcare quella stessa celerità con la quale l’umano, con il sigillo della giustizia, sta rassegnando le sue dimissioni in favore di una tecnica sempre più invasiva e ingerente nelle più intime e delicate sfere del sentire e dell’agire: la conferma esplicita di una fede ormai preminente e imprescindibile in Madre Tecnologia, affinché sorvegli in ogni momento su noi tutti!
Devi fare login per commentare
Accedi