Filosofia
Un cappello in stile libero
Caro Cigno Nero,
l’altro giorno ero in giro per negozi e, come credo succeda a molti di noi, sono stata attratta da alcuni capi, che poi ho acquistato. Ne avevo notati anche altri che mi piacevano, ma li ho scartati, perché mi sono subito detta: “Non fanno per me”. Successivamente ho mostrato entusiasta il nuovo abbigliamento prima a una carissima amica e poi a mia sorella, che, in momenti diversi, hanno commentato allo stesso modo: “Carini! Proprio nel tuo stile!”
Allora mi sono venute in mente tutte le volte in cui, invece, mi sono stati suggeriti abiti e accessori pensando erroneamente fossero nel mio stile. Così mi sono chiesta: cosa significa tutto questo? Cos’è che determina il nostro “stile”? E perché bastano un cappello o un mascara a farci sentire meno noi stessi?
Simonetta
Cara Simonetta,
lo stile di ciascuno ha una storia propria, che è venuta determinandosi dal momento in cui abbiamo abbandonato quello con cui ci vestivano i genitori e abbiamo iniziato a scegliere. Dal punk al grunge, dal cool al casual, abbiamo tutti attraversato fasi differenti, perché in adolescenza, tra trambusti, transizioni e influenze varie, il continuo cambiamento interiore ‒ di pari passo con le trasformazioni del corpo ‒ chiedeva di essere espresso. È nell’età adulta che siamo approdati al nostro stile, quello che contraddistingue ciascuno di noi in maniera più o meno definitiva, donandoci una sorta di stabile tranquillità.
A fronte dei mille franchising di una moda che ci vorrebbe omologati e interscambiabili, a fronte del trend dettato dall’influencer del momento, restiamo noi a scegliere quel capo piuttosto che un altro, restiamo noi ad abbinarlo con quelle scarpe lì, quei calzini lì e combinarlo in modo nostro, noi a indossarlo con quell’inconfondibile nonchalance. Ed è così che ci sentiamo bene, con la sensazione che il nostro aspetto esteriore vada d’accordo con quello interiore, che i due in qualche modo si rispecchino e si parlino, facendoci sentire noi stessi.
Il nostro stile, infatti, è frutto della stratificazione di tutte quelle volte in cui abbiamo provato la sensazione soggettiva di stare a nostro agio in quei panni lì, e questo vale tanto per i più palesemente disinteressati alle questioni di estetica, quanto per i cultori sfegatati del look: chi indossa una vecchia t-shirt anche per un’occasione formale non lo fa tanto per anticonformismo, ma prima di tutto perché è lì dentro che si sente naturale; allo stesso modo, chi cammina su tacchi eroici perfino su sentieri impervi non lo fa per apparire o per masochismo, ma primariamente perché in un paio di ballerine tentennerebbe come su un ponte tibetano.
Sarebbe interessante, allora, approfondire il nostro rapporto con le cose. Prendendo in prestito il linguaggio di Heidegger, potremmo dire che le cose del mondo “mondeggiano”, perché non siamo solo noi a dare loro un senso, ma sono anche le cose del mondo a dare un senso a noi: diamo significato alle nostre scarpe quando, indossandole col portamento che sanno darci, da semplici cose diventano “cosità”, mentre l’ennesima sciarpa di cui non ci interessa niente rimane nell’armadio senza cosità, cioè come cosa che non conta.
Che lo stile sia personale, non replicabile, lo dimostrano poi tutte le occasioni in cui ci troviamo a regalare abiti e finiamo per ripetere lo stesso copione: puntualmente sbagliamo. Anche se si tratta di persone che conosciamo come le nostre tasche e per le quali quel capo ci pare perfetto, c’è sempre un dettaglio a cui ‒ accidenti ‒ non avevamo proprio badato, un colore, una cucitura, mezzo dito di lunghezza di troppo. Sono queste le occasioni che traducono concretamente quanto sia utopistico mettersi nei panni altrui.
Ce lo dice bene l’origine della parola, che ‒ seppur lontana ‒, come spesso accade, ci avvicina al suo senso: “stile” deriva dallo “stilo”, bastoncino puntuto col quale si scriveva nell’ antichità incidendo le lettere su tavolette di cera, scavandole, ferendole. Diventò allora la maniera personale di scrivere, nel senso della grafia di quella mano irripetibile, poi estesa alla maniera di comporre le parole e di parlare, fino a quella di vestire e di vivere, fino alla maniera di pensare.
In qualsiasi senso lo intendiamo, però, lo “stile” indica la maniera, il modo, cioè un come e mai un cosa, mai un chi. Eppure è un “come” molto particolare, perché, alla stregua dello stilo che incide e modifica la tavoletta di cera, incide e modifica le persone. Tommaso d’Aquino diceva qualcosa di simile a proposito dell’habitus, inteso come abitudine ed esercizio a scelte e comportamenti capaci di segnare il soggetto agente. Siamo sempre un sinolo in fondo, mai solo forma, né mai solo sostanza, ma sempre forma e sostanza insieme.
Ora, nonostante la nostra unicità ci faccia assai compiacere, si intralegge una sorta di delusione al commento: “Carini! Proprio nel tuo stile!”, come se questa unicità fosse un limite, una specie di destino ineluttabile. Ed è un po’ come se il nostro stile ci desse una “stilettata” e ci ferisse con la sua punta aguzza.
Andando alla ricerca del motivo, possiamo ripensare a quanto detto prima, e cioè che il nostro stile si consolida in età adulta e resta quello ‒ sebbene talvolta adattandosi alle mode in voga ‒. Certo, sarà capitato a tutti di avere un guizzo e provare un abito diverso, magari tra quelli che piacevano a noi pur “non facendo per noi”, ma ci siamo accorti immediatamente che avrebbe funzionato solo se fossimo rimasti immobili come salami, perché al minimo respiro o movimento abbiamo avuto la percezione netta che ‒ no ‒ quel vestito non avrebbe mai potuto venirsene in giro con noi senza essere di intralcio. Dicevamo pure che lo stesso discorso vale per ogni aspetto che ci riguarda, il nostro dire, fare, pensare, come dimostra la refrattarietà che abbiamo a cambiare idea, cambiare prospettiva ‒ e il motivo resta la medesima mancanza di agio, sebbene stavolta in un habitus mentale ‒. Non è un caso, infatti, che incontriamo il “cambio rotta, cambio stile” assai di rado. È singolare, anzi, che lo riscontriamo perlopiù nelle persone che subiscono un trauma e che poi fatichiamo a riconoscere. “Non è più lei”, “Non è più lui” commentiamo, non solo per un fatto esteriore, ma anche per quel modo inedito di vivere e pensare. A questo punto fa quasi impressione accorgersi di quanto “trauma” sia vicino a “thauma”, cioè alla meraviglia, quella di noi increduli di fronte a una persona nota, eppure improvvisamente sconosciuta.
Tornando al nostro discorso e tirando le fila, a deluderci e darci una stilettata, allora, potrebbe forse essere l’incapacità non tanto di destare meraviglia nell’altro, in un’amica o una sorella, quanto di meravigliarci, noi stessi e di noi stessi.
E c’è un altro aspetto ancora: “Carini, proprio nel tuo stile” potrebbe anche essere letto come un “Belli. Ma per te. Perfetti per te, non per me”. Quanto ci avrebbe invece fatto più piacere un commento del tipo “Belli davvero!”, come se ciò che piace a noi dovesse rientrare non tanto in un gusto personale, ma assumere un valore universale. Dovremmo forse fare i conti col peso che hanno lo sguardo altrui e l’altrui opinione. Ma questo, per restare in ambito sartoriale, è un altro paio di maniche.
Nel nuoto associamo lo “stile libero” al crowl, usando una sinonimia impropria: in questa gara, in teoria, si potrebbe competere liberamente, ma nessuno rinuncia al crowl perché più funzionale alla vittoria.
La vita però non è una gara di velocità. Allora perché non sconfinare dal proprio stile ogni tanto? Perché, per una volta, non mettere quel cappello che ci piace ma “non fa per noi”, un “cappello per pensare” ciò che non abbiamo mai pensato, come non lo abbiamo mai pensato?
Irene Merlini
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