Filosofia

Tutto è arte, niente è più arte

1 Dicembre 2020

Il complotto dell’arte, raccolta di saggi che Jean Baudrillard scrisse negli anni ’90, ha provocato per più di un decennio roventi polemiche tra critici, artisti e appassionati per il tono irrisorio e requisitorio con cui il sociologo francese metteva alla berlina la produzione pittorica del ventesimo secolo. “Tutto il movimento della pittura ha rinunciato al futuro e si è volto al passato. Citazione, simulazione, riappropriazione… l’arte attuale si limita a riappropriarsi in modo più o meno ludico, o più o meno kitsch, di tutte le forme e le opere del passato, vicino o lontano, o addirittura già contemporaneo”.

Gli strali feroci di Baudrillard sono rivolti non solo all’arte figurativa, ma anche al cinema: “un’orgia di mezzi e di sforzi impiegati a squalificare il film con un eccesso di virtuosismo, di effetti speciali, di cliché megalomani… Più ci si avvicina alla definizione assoluta, alla perfezione realistica dell’immagine, più si perde la forza di illusione”. Ecco la grande assente dal panorama artistico contemporaneo: l’illusione, e con essa l’incanto, l’immaginazione, il desiderio, l’enigma. Ogni tipo di espressione artistica sembra tesa al “metalinguaggio della banalità”, a parlare e a straparlare di se stessa, snobbando il mondo reale, nell’idolatria dell’apparenza e dell’artificialità. “Oggi, tutte le cose vogliono manifestarsi. Gli oggetti tecnici, industriali, mediatici, gli artefatti di ogni specie vogliono significare, essere visti, essere letti, essere registrati, essere fotografati… Oggetti feticci, senza significato, senza valore, specchio del nostro radicale disincanto del mondo”.

Baudrillard osserva che a partire da Duchamp, per arrivare a Warhol e a Koons, ci siamo tutti (artisti, critici, pubblico) resi complici di questa derealizzazione dell’arte, diventata oggetto di consumo prestigioso, come qualsiasi altro affare commerciale: “Tutta la duplicità dell’arte contemporanea sta proprio in questo: rivendicare la nullità, l’insignificanza, il nonsenso, mirare alla nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già insignificante. Aspirare alla superficialità in termini superficiali”. A questo punto, l’arte diventa inutile, riciclata, non smuove più niente, se non interessi commerciali e finanziari, finendo per produrre gadget estetici funzionali solo al cattivo gusto universale.

Già in altri saggi tradotti in Italia (La sparizione dell’arte, L’agonia del potere), Jean Baudrillard si era espresso negli stessi termini, scagliandosi con indignazione contro la subdola prevaricazione del controllo, della dissuasione, della neutralizzazione, esercitata in primo luogo dai media, che ci riducono a diventare “dei riciclati, degli zombi”, affascinati dalla visibilità ubiqua, dalla trasparenza immediata, dal Grande Fratello internazionale che trasforma la realtà in un reality totalizzante e totalitario. “Si pretende che la grande impresa dell’Occidente sia quella della mercantilizzazione del mondo, di aver abbandonato tutto al destino della merce. È vero, ma bisogna vedere come la grande impresa dell’Occidente sarà stata piuttosto quella dell’estetizzazione del mondo, della sua messa in scena cosmopolita, della sua messa in immagine, della sua organizzazione semiologica… Tutto, anche il più insignificante, il più marginale, il più osceno, si culturalizza, si museifica, si estetizza”, trasformando persino la tragedia della sofferenza in spettacolarità virtuale.

Se tutto è per tutti simultaneamente politico, sessuale ed estetico, ecco che non esiste più politica come mediazione, sesso come amore e piacere, arte come bellezza. Non esiste più avanguardia perché non c’è nulla da anticipare, né informazione obiettiva poiché ogni avvenimento si trasforma in spettacolo, non produzione ma solo ri-produzione. Qualsiasi espressione supera sé stessa, arriva all’oltre, al “trans” e al “post”.

L’arte e la critica dell’arte sono scomparse proliferando i loro segni all’infinito, riciclando forme passate e attuali, eliminando qualsiasi criterio di giudizio: tutto è arte, quindi niente è più arte. Ogni cosa prodotta viene utilizzata, sfruttata, sacralizzata nell’arte. Non solo nei musei e nelle gallerie, nei luoghi deputati della cultura: ma ovunque, nelle strade, sui muri, nella banalità degli oggetti più comuni. Assistiamo a “una proliferazione di segni all’infinito, riciclaggio all’infinito di forme passate o attuali (il grado Xerox della cultura), ma dove non esiste più alcuna regola fondamentale, alcun criterio di giudizio, alcun piacere”. Baudrillard (1929-2007) ha avuto il coraggio di sottolineare il paradosso cui assistiamo da anni: a un sostanziale immobilismo, all’inerzia, alla mancanza di ispirazione, profondità e originalità di chi opera artisticamente, corrisponde una frenesia produttiva, un movimento convulsivo e proliferante dei prodotti artistici, nella nostra era “del simulacro e della simulazione”, delle fake news imperanti, in cui il vero non si distingue più dal falso, e il veicolo del messaggio diventa più importante del contenuto.

Forse il simbolo più rappresentativo di questa nuova funzione dell’arte è stato Andy Warhol: “Warhol non appartiene alla storia dell’arte. Appartiene al mondo, molto semplicemente. Non lo rappresenta, ne è un frammento, un frammento allo stato puro. Ecco perché, visto nella prospettiva dell’arte, egli può essere deludente. Visto come rifrazione del nostro mondo, è di un’evidenza perfetta”.

L’arte, perduta la sua autonomia creativa, si definirà come pura tecnica, industria, artigianato rituale, o sparirà del tutto: “non sarà stata che una parentesi, una sorta di lusso effimero della specie”. Se nella mistificazione orgiastica di ciò che appare finisce per sparire la realtà, forse l’unica possibilità di salvezza consisterà nel tornare all’evidenza del mondo, alla sua concretezza.

Il pungente e provocatorio piccolo volume edito da SE si conclude con due interviste all’autore e con un saggio di Sylvère Lotringer.

JEAN BAUDRILLARD, IL COMPLOTTO DELL’ARTE – SE, MILANO 2020 – pp. 84

 

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