Costume
Toccare (attraverso) la pelle
Caro Cigno Nero,
in questi giorni di mare, osservando i miei figli giocare con gli altri bambini, ho notato che tendono tutti ad acchiapparsi e usare le mani, sia nelle esternazioni di affetto e sia nelle situazioni di conflitto. Pensavo fosse una mia impressione, ma confrontandomi altri genitori ho riscontrato un po’ in tutti la stessa sensazione, e si susseguono esclamazioni di questo tipo: “Non ha mai fatto così”; “Non lo riconosco”, “Non so cosa le prenda!”. Ora mi chiedo: la facilità ad usare le mani sarà la conseguenza delle passate restrizioni? Sarà una suggestione collettiva di noi grandi? Oppure?
Fabio
Caro Fabio,
lo scenario che descrivi pare abbastanza diffuso, e potremmo forse titolarlo: “questione di tatto”. In questa maniera ci è immediatamente più agile pensare alla centralità del corpo, e non nel senso del peso giocato oggigiorno dalle apparenze.
Marleau-Ponty scriveva che solo il corpo ci permette di “andare al cuore delle cose”, e questo basti per porci al di fuori di quei dualismi che ci hanno abituati a viverci scissi – quando non lacerati –, e impigliati nelle dicotomie sempre sbilanciate tra anima e corpo.
È il corpo a consentirci di “essere nel mondo”, cioè di vivere in una dimensione costante di scambio e di incontro, dal momento che ogni corpo non si dà mai “in sorvolo”, ma sempre “tra” le cose.
Si capisce, allora, il motivo per cui Merleau-Ponty abbia riservato tanta attenzione alla percezione, come “operazione primordiale che impregna di un senso il sensibile”. Senza addentrarci nella questione, salta all’occhio quanto il “senso” delle cose, del mondo, della vita, abbia a che vedere con la sensazione; quanto dare e ricevere senso abbia a che vedere coi sensi innanzitutto: è attraverso i sensi che riconosco l’assurdità di me stessa come soggetto assoluto, ma mi scopro “toccante toccata”, “vedente vista”, “senziente sentita”. In questa reciprocità, che è anche simultaneità, potremmo rileggere Aristotele, secondo cui non riusciremmo a vivere senza tatto, senza toccare, considerandone però anche il risvolto, e cioè che neppure senza essere toccati riusciremmo a vivere.
Ci avviciniamo così alla tua questione “di tatto”, tra i sensi, forse, il meno esplorato.
Scrivi dei bambini, e non è un caso che l’educazione sensoriale, e tattile in particolare, giochi un ruolo importante alla scuola dell’infanzia: per i più piccoli è essenziale sperimentare la meraviglia del duro e del molle, del poroso e del viscido. Non è casuale il fascino ipnotico degli slime o delle sabbie magiche, oppure ancora, restando in tema estivo, quello seducente della sabbia vera, da manipolare e mischiare col mare, per tastarne le diverse consistenze, e poi fare scorrere, inanellando torri improbabili come tanti piccoli Gaudì: si tratta di un toccare, che è sempre per essere anche toccati – e lo si comprende bene pensando ai bambini che abbracciano il peluches, dal quale, in realtà, vogliono anche sentirsi abbracciati –.
Ci sarebbe molto da riflettere su questo senso particolare, che, a differenza degli altri, necessita del qui e ora, della prossimità, eppure resta “discreto” – per dirla con Silvia Vegetti Finzi – perché non ci bombarda, né ci perseguita, come fanno invece vista e udito, cui non possiamo sottrarci. Ci sarebbe da interrogarsi anche sul perché, crescendo, l’educazione al tatto verrà rimpiazzata – come quasi tutte le “pratiche” del resto – dalle “teorie”, etimologicamente vicine al “vedere”, al “contemplare” ciò che è in alto, lontano da noi.
Sono spunti, questi, che ci aiutano a ragionare sul motivo per cui, in questa stagione calda, i giochi con la sabbia non abbiano più la medesima attrattiva e, in un certo senso, passino in secondo piano: se l’afa richiederebbe il distanziamento necessario a respirare, i più piccoli trovano irresistibile stare appiccicati e toccarsi, accarezzarsi e accapigliarsi gli uni con gli altri, piuttosto che toccare e manipolare le cose.
Il fatto è che toccare ha un peso enorme nelle relazioni interpersonali, e ce lo ricorda ogni sconosciuto che ci sfiora inavvertitamente in ascensore, cogliendoci e scoprendoci intimi, ma anche pubblici e privati insieme. È la pelle a rendere decisivo l’incontro, quella pelle che ci ricopre totalmente e senza corazza, delicatamente, porosamente; quella stessa pelle che ci espone al mondo, nel senso francese in cui lo intende Jean-Luc Nancy, cioè come “ex-peau-sition”, una sorta di paradossale “pelle posizionata fuori” che ci rende vulnerabili in qualche modo. Per Nancy il corpo ci angoscia proprio perché implica questo continuo sentire in sé, essere sé, sempre fuori di sé; laddove il fuori non è tanto l’esterno a sé in termini spaziali, quanto l’estraneo. Ed è solo attraverso di lui che siamo noi stessi, che possiamo riconoscerci, sebbene mai integri, bensì frammentati, aperti. Di qui l’attenzione che Nancy riserva al “tocco”, una questione estrema e paradossale come la pelle, il bordo, il limite, che, se ci confina, pure ci relaziona come null’altro sa fare.
Le distanze fisiche dell’ultimo periodo ci hanno disabituati alla porosità della pelle propria e di quella altrui. Ci hanno invece avvicinati ancor più al touch plasticoso e impermeabile che, se richiede tatto, non assicura il con-tatto, e troppo spesso viene usato “senza “tatto”. Che accade quando, come adesso, possiamo tornare ad avvicinarci un po’? Dopo mesi di relazioni virtuali, l’incontro reale con l’altro genera una specie di estraneità, non solo nei suoi riguardi, ma anche verso noi stessi: ecco il “senso” del tocco, che richiede e pretende verità, una verità che si gioca su quella pelle che dicevamo.
Allora, tocchiamo, acchiappiamo, accarezziamo, perché veniamo da mesi di una integrità che non ci appartiene, che non è vera; veniamo da mesi di mancanza di pelle, l’unica capace di “toccare” chi siamo.
Ma il “senso” del tocco riscontrato nei bambini, forse, non si esaurisce nel bisogno egoistico di toccare al fine di riconoscere sé stessi. Il loro gioco, in fondo, rivela sempre qualcosa di originario, e non ha un fine, non richiede uno scopo per essere. Potrebbe trattarsi della capacità di avvertire un fondo dell’esistenza come mai singola, ma sempre esistenza plurale. Allora i bambini si toccano e, toccandosi, toccano sé, toccano l’altro e l’altra, e vengono toccati, riscoprendo quel “carne e ossa”, e pelle, e plurale, transindividuale, e fragile, pieno di senso e senza senso insieme.
Toccano, forse, per “andare al cuore delle cose”. E senza passare dalla pelle, è difficile arrivare al cuore.
Racconta Schopenaeur che un giorno dei porcospini infreddoliti si strinsero per avere un po’ calore. Pungendosi a vicenda, però, si allontanarono di nuovo e, solo dopo numerosi tentativi, trovarono la distanza adatta a scaldarsi senza ferirsi. È possibile immaginare fin dove si sarebbero spinti se, anziché aculei, avessero avuto solo pelle nuda e esposta? Può essere che, nonostante l’estate, anche i bambini avvertano una specie di freddo? E poi, se, come scrivi, da genitori “non li riconosciamo più”, perché non lasciare che siano loro a riconoscersi?
Irene Merlini
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