Filosofia
Stati d’eccezionale stupidità
“Prima di aprire bocca, conta fino a dieci”. Oppure, estremizzando, “Prima de parlar, tasi”, come si usa dire qui in Veneto, dove l’eloquenza non è mai stata considerata una virtù. Questo vale soprattutto quando parliamo di epidemie, a maggior ragione se non siamo virologi e quindi ne sappiamo poco o niente. Due settimane fa, il coronavirus non mi sembrava così spaventoso. Mi sbagliavo di grosso, perché trascuravo il dato più importante: quello dei posti attrezzati per la terapia intensiva che nella sanità italiana non arrivano a seimila, contro i 28mila della Germania. Questo dato rende assai preoccupanti gli altri (la contagiosità e il tasso dei casi che richiedono il ricovero in ospedale) e giustifica la quarantena soft a cui siamo tutti sottoposti. Il fatto che i provvedimenti presi per tamponare il contagio possano portare a reazioni di panico o a forme di disobbedienza (in)civile – dagli assalti manzoniani ai supermercati all’esodo verso Sud passando per i “Coronavirus Party” – dipenderà forse dalla natura del nostro tessuto sociale e da una storia nazionale che ha visto la creazione di uno Stato senza cittadini. Tutta roba arcinota che periodicamente si ripropone come la peperonata.
Se però a contestare le misure d’emergenza non è soltanto l’Italiano medio cui è stata negata la domenica allo stadio, bensì un notissimo filosofo, le femministe radicali e la meglio gioventù dei movimenti, appare chiaro come, oltre al Covid-19, qui occorra tenere d’occhio anche il “mal franzese”, nel senso dei cascami politici della filosofia continentale. Il 26 febbraio, quando le uniche “zone rosse” del territorio nazionale si collocavano attorno a Codogno e Vo’, «il manifesto» pubblicava uno stringato intervento di Giorgio Agamben, nel quale il filosofo definiva “immotivate” le misure prese dal governo, denunciandole come segnale di una deriva preoccupante:
“Innanzitutto si manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo”.
Come sa chi ha fatto le scuole alte, il concetto schmittiano di stato di eccezione ricorre spessissimo in quel brodo di sassi che è l’opera di Agamben, il quale chiude l’articolo denunciando
“un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”.
Il minimo sindacale della teoria critica, insomma; del tutto fuori luogo in questo frangente, ma in fin de1i conti, che importa? Chi legge Agamben, in un paese di semianalfabeti? Disgraziatamente, lo leggono o ne hanno almeno orecchiato le idee i militanti dei Centri Sociali del Nordest. Su Global Project, sempre il 26 febbraio, nella consueta prosa post-operaista inzuppata di french theory, venivano dette le stesse cose:
“I dispositivi di controllo che vengono predisposti intaccano profondamente le libertà individuali e collettive, ma nello stato d’eccezione tali limitazioni non solo vengono tollerate, ma addirittura invocate dall’opinione pubblica, che, paralizzata proprio dal climax mediatico, si trova immersa in un gigantesco panopticon ed è quanto mai incline a rimettere ad altri qualsiasi responsabilità decisionale. Lo abbiamo visto dopo l’11 settembre e dopo gli attentati parigini, con le misure straordinarie anti-terrorismo. Il rischio è che l’eccezione venga normalizzata, che diventi, sottotraccia, prassi costituente […]”
Le parole chiave della critica allo stato di emergenza vengono ovviamente passate alle giovani leve del Coordinamento Studenti Medi di Venezia e Mestre, sulla cui pagina fb leggiamo:
“Da sempre nelle situazioni di emergenza vengono prese decisioni straordinarie per fronteggiare in tempo e adeguatamente un pericolo o un problema, reale o percepito che sia. Libertà individuali e collettive vengono limitate e messe in secondo piano, a favore di un presunto “bene comune” e queste condizioni vengono accettate o addirittura richieste da chi subisce limitazioni, spesso condizionat* da come l’emergenza viene fatta percepire dalla politica e dai mass-media, proprio in onore della situazione straordinaria e della necessità”.
I ragazzi del coordinamento criticano la chiusura delle scuole, la quale, assieme alla teledidattica costituirebbe
“[…] un assaggio di “scuola” basata sulla lezione frontale, schiacciata ancora di più sulla trasmissione passiva di informazioni, e svuotata di qualsiasi ruolo educativo che oggi si da [sic] ogni giorno nel crescere in una comunità di amici e amiche”.
E sin qui niente di grave, non fosse per l’uso dell’asterisco al posto delle desinenze di genere, che sanzionerei fisicamente. Il problema è che il 5 marzo i ragazzi hanno deciso di approfittare delle scuole chiuse per passare una giornata tutti assieme al Centro Sociale Rivolta:
“SOCIALITÀ CONTRO LA PSICOSI
Oggi abbiamo dato vita ad una grandissima giornata di socialità al centro sociale Rivolta!
Dopo il pranzo sociale, abbiamo avuto la possibilità di studiare tutt* insieme nell’aula studio. La giornata non si è conclusa così però: dopo assemblea, dove abbiamo commentato insieme a tant* student* di varie scuole la situazione che stiamo vivendo, in particolare la normalizzazione della didattica online che toglie sempre di più il vero ruolo della scuola come spazio di formazione di un sapere critico e di socialità. Ci siamo confrontat* in merito alla tragica situazione che si sta dando sul confine tra Turchia e Grecia, abbiamo discusso di antisessismo aggiornandoci verso quella che sarà la giornata di mobilitazione dell’8 marzo e dibattuto della grande iniziativa di sabato scorso alla centrale a carbone Palladio di Fusina. Dopo l’assemblea, un aperitivo studentesco a pochi schei e tanta socialità sono stati la perfetta conclusione di questa giornata.
Con la chiusura di tutte le biblioteche e di altri spazi di socialità, infatti, non abbiamo né spazi di convivialità né luoghi per poter studiare.
Con la giornata di oggi siamo riusciti a dare una risposta forte e chiara:
davanti alla psicosi collettiva che si sta affermando in questi giorni, noi ci organizziamo e ci troviamo continuando il nostro percorso.
IN UN MONDO CHE CI VUOLE CHIUSI IN CASA, USCIRE È UN ATTO RIVOLUZIONARIO”
Un “percorso” davvero lodevole, che mi auguro tuttavia non preveda la visita ai nonni o agli amici immunodepressi, anche perché, se è relativamente facile mettere su un bar autogestito, o una palestra autogestita, di rianimazioni autogestite ancora non se ne sono viste. Complimenti vivissimi in particolare ai capataz più cresciuti.
Se gli studenti medi si sono così preparati per la mobilitazione dell’8 marzo, a maggior ragione lo hanno fatto le attiviste di Non Una di Meno, le uniche vere magistrae asteriscorum:
“Lo stato di emergenza causato dalla diffusione del Covid-19 nega gli spazi pubblici ai corpi? E allora lottiamo con le PAROLE.
Da ieri i muri di Venezia si sono messi a urlare, hanno strappato dalle nostre vite le frasi che almeno una volta ci siamo sentit* dire. La città si è svegliata agitata, con gli occhi spalancati sulle parole della violenza, il linguaggio della prevaricazione, dell’esclusione, del controllo.
METTIAMO AL MURO IL LINGUAGGIO VIOLENTO DELLA CULTURA PATRIARCALE E COMINCIAMO A RINOMINARE IL MONDO!”
Come le frasi in questione (“Sei tu la mamma, chi deve tenerli”, “Sei contenta che ti ho avviato la lavastoviglie” e “Non è che poi mi rimani incinta, vero”, etc.) possano contribuire a combattere sessismo e violenza non mi è chiaro. Se, come affermano le attiviste di NUDM
“Le stesse misure eccezionali scelte per limitare il contagio da coronavirus stanno esasperando disuguaglianze e gerarchie di genere e scaricando il peso del lavoro di cura aggiuntivo soprattutto sulle donne”,
l’azione pseudo-situazionista dei manifestini non ha nulla di liberatorio, non demistifica un bel niente, aggiunge anzi offesa ad offesa, rivelando inoltre un grande disprezzo proprio per il “lavoro di cura” – l’occuparsi dei bambini e degli anziani. Tutto questo in un momento di grande stress individuale e collettivo, nel quale peraltro tanti maschi tra i più retrogradi stanno dimostrando, giocoforza, sensibilità inaspettate. C’è solo da sperare che NUDM continui a non contare nulla, perché le rare volte in cui riescono ad emergere con qualche loro iniziativa, i residui della mentalità patriarcale ne risultano rafforzati.
A conclusione di questa breve rassegna sulle forme di resistenza allo stato d’eccezione, non può mancare il mondo della cultura più engagé (ergo: no Jova, no Vasco) e segnatamente del teatro. L’8 marzo sulle pagine de «Gli Stati Generali» è comparso un appello redatto da Massimo Marino, Andrea Porcheddu e Attilio Scarpellini e rivolto al titolare del Mibact. L’industria dello spettacolo è ferma a causa del virus, migliaia di persone sono o resteranno senza lavoro e un settore già cronicamente in crisi come quello teatrale sta subendo un colpo durissimo. L’appello chiede ovviamente sostegno economico, come decine di appelli simili, anzi una vera politica finalmente strutturale (come decine di altri appelli simili). Tutto assolutamente condivisibile, in particolare se amate il teatro come lo amo io. Mi permetto però, di chiedere agli estensori: era davvero necessario inserire nel vostro testo le seguenti considerazioni?
“Non discutiamo che i provvedimenti siano stati presi dalle autorità politiche, in accordo con quelle scientifiche, con motivate ragioni. La conseguenza, però, è la desertificazione delle città, l’annullamento delle occasioni di socialità e di cultura, il chiudere nell’isolamento le persone, accentuando la paura e la paranoia sociale, fino a propagare, oltre a quella del Covid-19, una vera e propria “infezione psichica”.
Se credessimo nell’esistenza di una «Spectre», di un complotto, potremmo vedere realizzato un progetto che abbiamo visto montare per anni: chiudere gli individui nel particulare, smantellare la società, il senso critico, la cultura dell’analisi, del distinguo, della creatività, della relazione, a favore di un’omologazione in nome della paura”.
“Se credessimo”. “Non discutiamo”. “La conseguenza, però”. Un risibile giochetto retorico a introdurre la fesseria consolatoria del “progetto”, cioè del disegno occulto, del piano. Cari tutti, sapete benissimo che non ci sono progetti in questo casino di paese. Lo scarso senso critico degli italiani non ha alcun bisogno di essere smantellato, le città ora desertificate sono normalmente intasate da una socialità che purtroppo non corrisponde ai canoni da voi condivisi e, infine, il mondo dell’accademia e delle arti performative è un inventario infinito di chiusure nel particulare – spesso nobilitate da qualche provvidenziale “finalità sociale”.
In ciascuno degli esempi precedenti si ritrovano un tratto comune, uno stile di pensiero condiviso, una tradizione culturale consolidata, quella per cui le interpretazioni precedono i fatti e la realtà è solo un testo col quale giocare. Nel corso del tempo questa cultura ha inquinato la critica dell’esistente, è filtrata a sinistra contemporaneamente al declino del marxismo, generando tutta una serie di imposture intellettuali, pantomime politiche, gerghi astrusi e mode filosofiche. Niente di serio, niente di piacevole, comunque niente che possa interessare noi non-specialisti, sempre che non ci vada di mezzo la salute delle persone. È troppo chiedere di mettere da parte i balocchi, di piantarla con le cazzate, almeno finché l’epidemia non inizierà a scemare?
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