Filosofia
Simone Weil: quantità rovina dell’umanità
“Quantità rovina dell’umanità”. Così scriveva Simone Weil nelle sue “riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, era il 1925 e capiva che i processi industriali, economici e scientifici stavano acquisendo autonomia e automazione divenendo incontrollabili dall’uomo. In sostanza descriveva l’avvenuto ribaltamento in cui l’oggetto (per esempio il processo economico-finanziario la cui ingovernabilità è oggi sotto gli occhi di tutti) acquisisce una sua autonomia e diviene un meccanismo che vive di vita propria.
Gli eredi di Marx diceva Simone Weil, non hanno considerato il monito più importante del loro Maestro, ossia che l’uomo fa sì la propria storia, ma in condizioni determinate. Bisogna allora studiare le condizioni di esistenza oggettive per comprendere in che modo è possibile agire. Sembra dunque inutile alla Weil parlare di rivoluzione nel momento in cui i processi sui quali bisogna influire sono divenuti inafferrabili, ossia non padroneggiabili dal pensiero.
A venticinque anni scriveva che la società non ha nessuna possibilità di emancipazione. Critica il marxismo al punto di capovolgere uno dei suoi assunti fondamentali: “è la rivoluzione, non la religione l’oppio dei popoli”. Poi scende in campo, lavora in fabbrica come operaia alla Alshtom di Parigi (1934), partecipa attivamente alla guerra d’indipendenza spagnola (1936) e infine arriva alla sublimazione mistica di tutto il suo pensiero dedicandosi a un Dio universale e trasversale. Non abbandona affatto la riflessione sul lavoro trasportandola invece ad un livello più alto, che Thibon ha giustamente definito mistica del lavoro.
Mistica? Alla fine non ha retto, ha sostenuto qualcuno, al disincanto davanti alla dura superficie delle cose, così come lei chiamava la realtà vera, quella in cui si torna a casa con le membra rotte dal lavoro, ma in cui si sente il mondo.
Non è forse mai riuscita a superare l’esperienza di fabbrica, “É inumano […] l’attenzione, privata di oggetti degni, è costretta invece a concentrarsi su problemi meschini[…] Ma io mi chiedo come tutto questo possa diventare umano”.
Simone Weil é morta a soli trentaquattro anni lasciando la sua grande opera, una miniera di oro puro.
Paolo VI voleva farla santa anche se non ha mai voluto ricevere il battesimo perché la chiesa non è universale come lo era lei.
Bisogna leggere Simone Weil, perché dà una grande libertà di spirito ed educa al pensare sé stessi in relazione all’universale, ci fa volare alto e vedere la luce.
Quantità rovina dell’umanità, niente è più vero quest’oggi. Ovunque si guarda si ha l’impressione di essere persi, di non avere idea di dove si trovi la verità, unica ragione di vita. Non si ha il tempo di cercarla perché non si sa più che cos’è il silenzio e la “presenza”: la quantità di stimoli che provengono dall’informazione é delirante (non per niente Lacan sosteneva che ascoltare il discorso dell’informazione è come ascoltare il discorso dello psicotico). Io, non so voi, mi sento spesso piccolo piccolo come quando si guarda la terra dal cielo, insignificante e solo.
Non voglio essere negativo e banale guardando il passato con il filtro del tempo. É innegabile però che la quantità intesa come complessità irrisolta continui la sua ascesa e a dimostrarlo sta, che siamo tutti costretti a sviluppare micro riflessioni su micro argomenti su cui abbiamo fatto un master di specializzazione in soli tre mesi.
Non c’è più tempo per le riflessioni di ampio respiro e per la qualità del pensare. Si oscura sempre più l’universale per il particolare mentre la Weil mistica, intrisa di letture induiste e buddiste scrive: “che l’anima abbia per corpo l’intero universo”.
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