Costume
Simboli capaci di non lasciarci andare
Caro Cigno Nero,
tre giorni fa era Natale. La sua attesa è stata velata da un desolante senso di tristezza e frustrazione, forse perché non c’è niente di nuovo rispetto all’anno scorso e non ci ho fatto l’abitudine; forse perché speravo che le cose sarebbero cambiate.
Restrizioni, divieti, paure… non sono Natale. Mi è capitato di essere malata nel giorno del mio compleanno, ma è bastato posticipare il festeggiamento. Questo col Natale non è possibile e mi chiedo perché.
Inoltre, premettendo che non sono credente, mi trovo però ad ammettere che alla fine della fiera queste vacanze che sto vivendo sono ugualmente speciali e che Natale resta comunque Natale. Non so come, né perché. Sarà questa la sua famigerata “magia”?
Ilaria P.
Cara Ilaria P.,
sebbene da pochissimo, siamo ormai fuori dalle vacanze, e possiamo provare a guardare al Natale trascorso con quella distanza che, anche se minima, serve a focalizzare.
Accade puntualmente che ricorrenze private e occasioni da calendario materializzino un metro di paragone tra prima e dopo, mostrandocene le differenze, e anche svelando quanto sia cambiata la nostra vita in generale. Così, tanto per fare un esempio, quando festeggiamo un compleanno, non ci fermiamo col ricordo solo a rivivere il precedente, ma, a partire da quel giorno, iniziamo a ripensarci tra persone, situazioni, emozioni e stati d’animo che gironzolavano intorno a quell’intero periodo.
Nella differenza del tempo che mai si ripete uguale, il Natale degli ultimi due anni – come scrivi – è stato dissomigliante da tutti gli altri che abbiamo conosciuto, così come questo pezzo di vita. E la ragione ci è ben nota.
Eppure, come appunti, questa festività sembra preservare la sua luce. Immediatamente successivo al buio solstizio d’inverno, Natale celebra il sol invictus, il sole che torna; è la festa della luce che si fa spazio nel periodo delle notti lunghe. Si spiega così perché il Natale sia universale, trasversale sopra le culture e le religioni: è il sole ad essere universale, perché universale è il venire alla luce e della luce, universale è la nascita.
Nel quotidiano siamo invece inclini a rintracciare la cifra umana nella morte, a riconoscere che è l’orizzonte mortale a determinarci, ed è da lì che si tesse il senso della nostra esistenza, in un movimento a ritroso di un dopo che offre senso al prima. Questa visione ci ha però fatto scordare quell’altra faccia della vita che è la natalità, confinata tra sale-parto, negozi per la prima infanzia e dibattiti medico-scientifici, e che invece Natale, col suo nome emblematico, non fa che ricordarci: ci rammenta che siamo umani non tanto perché moriremo, ma anzitutto perché nasciamo e siamo nati, giacché – in fondo – non c’è dopo che possa dare senso alcuno se manca il prima. Così ogni Natale è speciale perché è rinascita, non egocentrica come un compleanno, bensì condivisa nell’inclusione di tutte e tutti coloro che sono, sono stati e saranno. Sta qui forse il segreto di quella che molti definiscono la sua “magia”.
Sorprende il ruolo tutt’altro che frivolo giocato dalle luminarie sfavillanti, che caparbiamente hanno acceso ancora le strade di città, borghi e paeselli. Il fatto strano delle lucine – seppur sembri scontato – è che hanno bisogno dell’oscurità per vedersi e brillare. Il fatto ancor più singolare è che, luccicando, quelle luci artificiali non soltanto fanno bella mostra di sé, ma ci permettono di vedere meglio il buio. Il che non è proprio un’inezia, perché allude alla festa di una luce che non è tracotante, che non acceca, perché non rinnega l’altra metà, anzi, ci mette sotto il naso anche il lato opaco, quindi il contrasto che siamo e che la vita è.
Per questo cruciale compito, il Natale si serve di un sofisticato corredo di riti e simboli, che restano, nonostante tutto.
I riti sono assai potenti nella loro rassicurante ripetizione attraverso le generazioni: nel futuro prossimo e carico di ignoto, ci consentono di convivere con l’incertezza riconducendoci all’appartenenza; permettono cioè di aggrapparci a un legame che, nello spaesamento dell’imprevisto della storia, ci de-storifica, cullandoci nella stereotipia del familiare.
Le dissonanze che hai avvertito nel Natale degli ultimi anni, allora, potrebbero essere riconducibili proprio al fatto che tanti riti sono stati disattesi: la messa della mezzanotte per i credenti oppure la visita alle zie – con annessa deliziosa degustazione delle loro inconfondibili interpretazioni dei dolcetti della tradizione –, giacché la minaccia Omicron ha scoraggiato la presenza in luoghi chiusi e/o affollati; lo scambio di doni decisamente ridotto per il medesimo motivo; la storica assegnazione dei posti attorno alla tavola per il cenone, e perché è stato preferibile non essere in tanti, e perché è stato impossibile essere tutti, giacché la pandemia ha comminato inaspettate assenze in troppe case.
E se il rito è disatteso, accade che ci sentiamo persi.
Ma qualcosa è rimasto, e tu stessa l’hai avvertito: certamente i riti nella loro dimensione più intima, e poi i simboli, che sono paradossalmente quasi sembrati più forti. Da syn-bállo, cioè “mettere insieme”, unire, il simbolo indicava in antichità la tessera hospitalis – di cui più volte abbiamo parlato in questa rubrica –: spezzandola e conservandone un pezzo ciascuno, ospite e ospitato stringevano un legame, un patto, potendo così riconoscersi (nel duplice significato di quel “-si”). I simboli sono un po’ questo, concretezze capaci – come ci dice Cassirer – di custodire una eccedenza di senso, capaci cioè di diventare molto più significanti rispetto a sé stesse, rispetto al segno. Ma si tratta di un senso che riusciamo a sfiorare solo accarezzando e ascoltando la loro matericità, a intuire con la nostra parte più remota, che oltrepassa il razionalmente pensabile e l’esplicitamente dicibile.
La sensazione generale è che in pandemia ci sia stata maggiore cura per il Natale: maggiori la delicatezza e il piacere nel fare albero, maggiori la calma e la premura nello scegliere quei pochi pensierini che abbiamo donato o ricevuto. Certo, stando più in casa, avendo meno da affaccendarci, ci siamo presi tutto il tempo necessario e anche di più, per questi gesti che, nel nostro mondo frenetico, fino a qualche tempo fa erano diventati gesti da niente. È ancor più vero, però, che in questo momento avvertiamo un tremendo bisogno di legarci, di rinsaldare i legami. E i simboli, come dicevamo, legano. Ce lo sussurra l’alberello in plexiglas che abbiamo ricevuto, oppure il rametto di vischio in barattolo poggiato sulla scrivania di qualcuno, accompagnati da quel timido “è giusto un simbolo!”, quasi a giustificarne il piccolo valore di mercato, quasi a minimizzare ciò che però non si può sminuire. Ma c’è solo da ridere in faccia al mercato quando siamo impantanati in una crisi umana, perché più pesante è la crisi e più il simbolo rinvigorisce, al punto da impregnarsi del valore incomputabile di un faro in mezzo alla nebbia fitta.
In “Le piccole cose del Natale”, Francesca Rigotti metteva a critica consumismo e immaterialità del virtuale, rimarcando il peso delle cose, appunto. La sua analisi è altrettanto calzante se traslata nella vita da Covid, per cui “ben venga l’albero a ricordarci la concretezza della materia e la presenza dura delle cose”.
Palline decorate, ghirlande fai da te, pacchettini preparati con minuziosa cura, cose. Cose che, come simboli, ci legano, a qualcuno e al mondo. Se nascere è sempre un trauma, se quel primo respiro è un’impresa titanica in bilico tra vita e morte, allora ci servono simboli capaci di non lasciarci andare. Soprattutto adesso, che è ora di (ri)nascere.
La magia del Natale si è sempre trasposta in termini di euforica condivisione, una condivisione soprattutto dello spazio vissuto: delle proprie case, delle piazze, delle tavolate. Se tutto questo è venuto a mancare, può essere, allora, che quella magia stia anche nel tempo? Può essere che si possa respirare un suggestivo spirito di comunità senza necessariamente condividere lo spazio, bensì “semplicemente” facendo le stesse cose – simultaneamente anche se soli –, vivendo cioè (nel)lo stesso tempo?
Irene Merlini
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